(
di Virginia Murru)
Nonostante sia trascorso quasi mezzo secolo dalla sua scomparsa, Anne Sexton è un punto fermo della letteratura in tutto il mondo, ha avuto un ruolo importantissimo nell’Arte di scrivere in versi, e ci ha lasciato un patrimonio di scritti che rappresentano una sorta di ‘transfert’ dell’animo inquieto della poetessa americana. E’ conosciuta come Anne Sexton, ma il suo vero nome era Anne Gray Harvey, era nata a Newton, nel Massachiusetts, in una famiglia dell’alta borghesia, che la viziò con tutti gli agi possibili, ma non seppe offrirle forse le attenzioni e l’affetto di cui aveva bisogno.
Se, come sostengono gli psicoanalisti, l’infanzia e l’adolescenza costituiscono le fondamenta della personalità di un soggetto, e decidono anche il suo futuro equilibrio, certamente ad Anne Sexton qualcosa d’importante deve essere mancato in quegli anni. Nonostante, dopo la sua scomparsa, tanti dettagli della tormentata esistenza siano poi confluiti nelle pagine della biografia, gli anni della sua formazione in famiglia restano nell’ombra, e forse lei stessa stese un velo di silenzio sulle esperienze vissute in quel periodo.
Secondo i biografi, in particolare Diane Middlebrook, quella che forse di più si è avvicinata alle profonde fratture della sua vita, alle vicissitudini e all’instabilità di Anne, non vi era intesa con i genitori, era piuttosto un rapporto conflittuale, ma basato sulle convenzioni del ceto sociale al quale apparteneva.
La Sexton non aveva dimostrato grande attrazione o inclinazione agli studi nel corso della sua formazione scolastica, aveva frequentato regolarmente l’iter previsto, fino all’iscrizione ad una scuola professionale, non certo stimolante per l’animo istintivo ed esuberante che aveva. Non concluse infatti gli studi, perché nel ’47, a soli 19 anni, sposò Alfred Muller Sexton. Un’unione irresponsabile, un modo come un altro per tentare di aprire una porta nuova nella sua esistenza, e soprattutto per raggiungere quell’indipendenza di cui il suo carattere autonomo aveva bisogno. E fu uno dei tanti errori che non si risparmiò.
Il marito era impegnato con l’esercito all’epoca, trovandosi spesso sola, decise di misurarsi in qualcosa che la scuotesse dalla staticità che non si conformava alla sua indole, così, intraprendente qual era, si dedicò ad un periodo di esperienze nuove, ad una segreta passione, il lavoro di modella. La bellezza del resto non le mancava. Ma si trattò di una semplice parentesi. Poco dopo la sua mente fragile, nonostante l’apparenza impetuosa ed energica, le prospettò la prima sfida con il male divorante che sarebbe diventato l’ombra insidiosa del suo equilibrio e della sua esistenza: la tendenza agli stati depressivi, quel senso di non essere che le velava gli occhi e allontanava sogni e progetti dal suo avvenire.
L’instabilità emotiva, le oscillazioni dell’umore, erano la sintomatologia di questo male oscuro, emerso in seguito ad una depressione post partum, dopo la nascita del primo figlio. Inutile ribellarsi, minacciare di accartocciare il mondo, impartire ordini al soqquadro della mente, inutile: avrebbe dovuto, suo malgrado, convivere tutta la vita con i pensieri e uno stato emozionale che deragliavano continuamente, nonostante la terapia farmacologica, nonostante l’assistenza di un terapeuta. Anne era intelligentissima, e affrontava il mostro osservandolo negli occhi, sfidandolo, anche, con la sua tendenza alla trasgressione; prendeva a morsi la vita ovunque vi fosse un vicolo aperto, una porta socchiusa.. E non le importava gran che di peggiorare il suo equilibrio ricorrendo all’alcool, se questo si rivelava un mezzo sia pure illusorio e fittizio, che sapeva portarla verso un oltre, purché non fosse la dura realtà del quotidiano.
Non aveva neppure preclusioni o argini di carattere morale, quando si trattava di concedersi qualche occasione con un partner al di fuori della sua relazione coniugale. Queste esperienze, poi fluivano dietro le correnti di quel fiume in piena che era il suo estro poetico. Le congestioni del vissuto destabilizzavano le giornate, e lei osservava quella dissolvenza negli angoli liberi della coscienza, non aveva nemmeno pietà di un profilo psicologico che rischiava di deturpare la sua identità, quella che gli altri potevano ‘intuire’, oltre la compiacenza di una maschera quasi ineccepibile. L’anomalo metabolismo mentale lo riversava nei suoi i versi, come fosse una catarsi che le consentiva di liberarsi della parte più sovversiva del sé, o almeno, quella era la sensazione del momento. Ma erano solo fughe.
Lottò, Anne, lottò strenuamente e implacabilmente contro questa ombra subdola, che per lei era simile ad una dannazione, ma sembrava che stesse lottando contro un destino ineluttabile, che aveva già deciso per lei. Frequentò dei laboratori di poesia, e vi si dedicò con tutta la passione di cui era capace, ossia con grande slancio. Le parve in quel periodo di avere trovato la strada, quella che invano aveva sempre cercato. Ecco, la poesia era la seconda anima, e aveva le misure del suo pensiero inquieto, a tratti irrazionale. Teneva i corsi del laboratorio, Robert Lowell, che lei stimava molto. Qui, per una strana e inspiegabile circostanza della sorte, incontrò un’altra poetessa, Sylvia Plath, anche lei di Boston, innamorata pazza della poesia, come Anne. Più tardi, anticipandola di una decina d’anni, si sarebbe suicidata, e dopo la sua morte le sarebbe stato assegnato il tanto agognato ‘Premio Pulitzer’, esattamente come Anne, solo che lei almeno ebbe la fortuna di riceverlo quando ancora era in vita.. Sconcertante l’incontro di due destini così simili tra loro, ci fu anche una bella amicizia, fatta di confronti sulla produzione poetica, sulle sottigliezze del loro stile a livello espressivo. Poi le loro strade si divisero, chiamate dalla stessa voce, in direzioni diverse.
I loro caratteri non erano tuttavia simili; Anne era spregiudicata e irruente, disinibita, non c’erano paure che si frapponessero tra il suo desiderio d’essere e apparire, mentre Sylvia, soprattutto dopo l’incontro con l’uomo della sua vita, era più portata per la tranquillità degli affetti, pur amando allo stesso modo la Poesia e la narrativa. Entrambe aderirono allo stesso stile (non propriamente d’avanguardia), ‘lo stile confessionale’, ossia prettamente autobiografico.
Anne, nella sua poetica, aveva percorso sentieri fino ad allora interdetti alla società americana degli anni cinquanta, nei suoi versi troviamo temi come il divorzio, l’aborto, o puramente femminili, argomenti che avevano ancora aloni di un’eresia che rimandava ad epoche puritane nei luoghi in cui la poetessa era nata.
Scrisse tanto, le opere più rappresentative restano “To Bedlam and Part way back” – raccolta di testi pubblicati nel 1960 – “All my pretty ones” – del ’62 e “Live or die” del 1966, silloge che le valse l’assegnazione del Premio Pulitzer. Ma Anne era già notissima prima che le fosse assegnato questo importante riconoscimento, famosa anche in Europa. I suoi versi erano disarmanti, veri e acuti, precisi tecnicamente come frecce scagliate in un bersaglio, bellissimi. E ottenne molti altri prestigiosi riconoscimenti, che neppure ricordava se qualcuno gliene chiedeva conto..
Aveva tutto, aveva bruciato ancora giovane ogni traguardo, era ammirata e coccolata, ma il successo non divenne mai una droga nella quale affogare quel male sottile che l’assediava giorno e notte, avvelenando ogni conquista, ogni sorso d’aria pura. Si fidava più dei sedativi e degli psicofarmaci che della gente che aveva intorno, i farmaci erano i veri medium tra l’essere e il non essere, i soli veri amici del suo tempo.
Spalancare gli occhi come finestre in un cielo libero non serviva, sentiva d’avere tenaci catene ai piedi, nonostante tutto, che la condizionavano, le creavano impedimenti di ogni genere: la sua mente, il motore del suo sussistere, era schiava di qualcosa che non aveva né volto né anima, era una maschera oscura che divorava il suo tempo senza scampo. Non si arrese, continuò a scrivere, e nel ’69 pubblicò “Love poems” , altro riconosciuto ‘masterpiece’. Una carriera ormai solida, le sue opere erano credenziali che non avevano necessità di referenze, cosa mai poteva desiderare di più? Quello che non aveva, che non aveva mai avuto: la serenità e la pace interiore. Un miraggio. Nelle ultime opere, nei testi contenuti in esse e perfino nei titoli, era possibile già intuire la deriva e quel buco nero che l’attraeva inesorabilmente, e furono “The book of Folly” e “The Death Notebooks”, piuttosto eloquenti, un drammatico presentire, il suo..
Era iniziato ormai da anni il periodo più turbolento e instabile della sua esistenza, un conto alla rovescia inesorabile. Affetti e amici ne furono molto provati, era difficilissimo starle vicino, per via dei suoi sbalzi d’umore, e le reazioni spesso esacerbate dall’uso di farmaci e alcool. E tante furono le degenze in cliniche specializzate, diversi anche i tentativi di suicidio.
Nel 1974 arriva al capolinea della sua esistenza tormentata, dove l’angoscia in fin dei conti era stato l’elemento caratterizzante, un fumo nero che l’aveva circondata e ostacolata, insidiata e irrisa.
A ottobre, dentro il garage della sua abitazione, dopo una giornata in apparenza normale, non peggiore di tante altre, lei aveva già deciso che sarebbe stato l’ultimo ponte verso la vita. Accese la sua auto e si lasciò travolgere dal monossido di carbonio. Una scelta tragica, cosciente, le cui redini però erano in mano del tiranno che la governava: la sottile follia, unica e sola padrona di quel drammatico vissuto.
Postume furono pubblicate altre raccolte, tra le quali “Words for doctor Y” – “ Mercy Street”-
La letteratura ha perso quel giorno un Astro, che aveva brillato come pochi nell’Universo dell’Arte.
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