L’Isis insanguina Berlino con una strage che ricorda quella di Nizza. Un camion piomba sulla folla dei mercatini di Natale provocando 12 morti e 48 feriti. Uno degli attentatori muore sul mezzo, l’altro viene arrestato dalla polizia. L’attacco fa pensare ancora una volta all’azione di “lupi solitari”. Una guerra a tutto campo che i terroristi islamici conducono su più fronti: l’Europa, la Russia, gli Stati Uniti e i fedeli sciiti. Come scrive Stefano Stefanini “la Jihad rilancia la sua sfida e le minacce non se ne andranno presto”.
Europa, Mosca e sciiti: la guerra sui tre fronti degli estremisti sunniti
Con i “lupi solitari” l’Isis colpisce obiettivi occidentali. Guerriglia e autobombe per destabilizzare Iran e alleati
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a vittoria di Bashar al-Assad e Vladimir Putin ad Aleppo ha paradossalmente dato fiato al fondamentalismo salafita. Ribelli «moderati» e l’ex Al-Nusra hanno condiviso la battaglia sotto i bombardamenti dell’aviazione russa. L’impossibilità dell’Occidente di difendere i civili innocenti, e soprattutto di separare i jihadisti dagli altri combattenti, ha portato alla disfatta dei ribelli. Il mondo arabo-sunnita è sotto choc. Né gli alleati in Europa e negli Stati Uniti né le monarchie del Golfo sono stati in grado di dare garanzie. L’altro garante dei sunniti, la Turchia, sta cercando un accordo con il Grande Nemico, la Russia. Gli estremisti si ergono a «veri» difensori della Sunna. Lo si è visto nelle ultime fasi della battaglia di Aleppo. Lo si vede nella nuova linfa che sembra pervadere il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.
La tesi totalitaria del Califfo riprende piede nella realtà. Gli arabi sunniti soli contro tutti. L’Occidente cristiano, l’Iran «eretico» guida degli sciiti, la Russia di nuovo imperiale in Medio Oriente. E a lanciare il contrattacco sono gli estremisti. Più che una vendetta per Aleppo, l’attentato di Ankara è un tentativo di bloccare il dopo-Aleppo. Il vertice che si terrà a Mosca la prossima settimana fra i ministri degli Esteri russo, turco e iraniano sta per delineare i futuri assetti della Siria. L’iniziativa diplomatica è dirompente. Tiene fuori l’Onu e soprattutto gli Stati Uniti, king maker della regione da settant’anni.
La sconfitta di Aleppo va ben oltre gli aspetti locali. È la pietra tombale sul progetto di sostituire le repubbliche laiche ma autoritarie, dalla Tunisia alla Siria, con una costellazione di Stati guidati da movimenti islamici moderati. Il progetto che ha subito un primo brusco arresto in Egitto nel 2013, quando il presidente fratello musulmano Mohammed Morsi non si è dimostrato all’altezza ed è stato esautorato dal generale Abdel Fateh al-Sisi, con il consenso di Washington e Riad. La sconfitta ad Aleppo ha però ben altro peso perché è una definitiva inversione di rotta imposta con la forza dalla Russia e dall’Iran, ottenuta con i bombardamenti a tappeto dell’aviazione di Mosca e le fanterie d’assalto sciite addestrate da Teheran.
Il grido di dolore che si è levato nei Paesi sunniti, le denunce del massacro ad Aleppo, di una nuova «Srebrenica», addirittura di un nuovo «Olocausto», sono state accompagnate da una serie di reazioni scomposte da parte degli elementi estremisti. L’evacuazione dei civili dall’ultimo quartiere di Aleppo in mano ai ribelli sono state frenate, è vero, dalle milizie sciite indisciplinate, ma molto di più dai gruppi combattenti salafiti, non solo l’ex Al-Nusra. Il brutto spettacolo dei pullman dati alle fiamme alle porte di Fua e Kefraia, due cittadine dove altre migliaia di civili innocenti, sciiti, hanno sofferto per quattro anni, è il sintomo di una voglia di vendetta irrefrenabile.
I taleban, Hamas, lo stesso Isis, si sono erti a «difensori» di Aleppo. A loro modo. Sia a Berlino che ad Ankara ieri sera le rivendicazioni non erano chiare. Ma è chiaro che i jihadisti stanno cercando di prendere in mano «il dopo-Aleppo». La grande mobilitazione sunnita «moderata» non ha fermato la sconfitta inevitabile. Putin è ora visto come il Grande nemico dell’islam politico, degli eredi dei Fratelli musulmani, delle potenze conservatrici. Ma anche Recep Tayyip Erdogan è considerato un «traditore». Aveva giurato che sarebbe andato a pregare nella Moschea degli Omayyadi ad Aleppo una volta «liberata» dai ribelli e ora si sta accordando con il loro nemico mortale.
I movimenti jihadisti, dall’Isis in giù, hanno ora gioco facile nel dire che sono «loro» gli unici garanti degli arabo-sunniti. Il ritorno in forze del Califfo, che resiste a Mosul, si riprende Palmira, sferra un attacco nel cuore della Giordania, torna a colpire in Europa, è un primo sintomo. Al-Baghdadi continua a minacciare di «arrivare a Roma» come «alla Mecca e Medina». L’Arabia saudita si sta sfiancando in una guerra sulle montagne dello Yemen, una sorta di Afghanistan nella Penisola arabica, contro i ribelli sciiti Houthi. È stretta fra due fuochi. La ricomposizione del Medio Oriente, cominciata sei anni fa in Tunisia, è finita fuori controllo e minaccia l’Occidente e i suoi tradizionali alleati.
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