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Andrea Valentino: guardare al passato per conoscere ciò che ci circonda

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Andrea Valentino ci insegna come guardare al passato per conoscere ciò che ci circonda. Ma la sua regia è tutta volta al futuro. E, mentre siamo al telefono, vince il premio RIFF come produttore.

Andrea Valentino: guardare al passato per conoscere ciò che ci circonda

La redazione ha incontrato Andrea Valentino, regista napoletano i cui interessi spaziano tra il cinema, il documentario e l’antropologia. In primo piano il suo ultimo lavoro: “A’ Pastellessa”, da lui così definito.

Si tratta di un piccolo lavoro completamente autoprodotto. L’idea era di seguire l’iter della festa con attenzione al rito di Sant’Antuono a Macerata Campania. Il rito avrebbe dovuto ricevere un riconoscimento dall’UNESCO intorno alla fine del 2020, ma tutto è stato sospeso a causa del Covid”.

“Ho deciso di lavorare comunque alle immagini che avevo girato nel 2019 assumendo un punto di vista antropologico. Il documentario non è mai il racconto della realtà oggettiva, impossibile da catturare, perché non esiste. Lo definirei, piuttosto, la realtà raccontata da un punto di vista”. Ed è proprio questa la posizione che Valentino assume nel raccontare la tradizione di Macerata Campania.

“Volevo essere all’interno della festa e vivere ciò che capitava intorno, da estraneo. Questo in riferimento a uno dei maestri del documentario come Vittorio De Seta, che ha visto il suo cinema in questo modo: raccontare la vita dal punto di vista dell’osservatore che si immerge in una realtà di cui non fa parte”. Non riprende così solo in “A’ Pastellessa”, ma anche in “Ritmi del Gelbison”, girato sul monte omonimo in Cilento. “È un lavoro che definirei acerbo, le riprese iniziarono nel 2009 e finirono nel 2011”. Il racconto del rito del monte Gelbison è colto ancora sotto l’aspetto antropologico, con particolare attenzione alle musiche e alla taranta cilentana cosiddetta “non contaminata”.

Con Andrea Valentino abbiamo affrontato il tema dello spazio dedicato al documentario nella cinematografia italiana. Valentino va dritto al punto. “Il tallone d’Achille del sistema italiano è la distribuzione. Si dice che la tv propone contenuti che tendono ad andare sempre più verso il basso. Viene data la colpa agli spettatori di essere sempre più superficiali: non penso sia così. Se vengono proposti prodotti differenti, con livelli di comprensione e di modalità narrative differenti, il pubblico ottiene un ventaglio di scelta differente. Questo, purtroppo, non avviene”.

Il documentario, quindi, è costretto a scegliere altri canali. “Ho deciso di presentare “A’ Pastellessa” con una premiere su YouTube e in forma gratuita. Questo per dimostrare che se viene data la possibilità di visione, la forma documentario arriva alle persone”. Tuttavia, il genere continua a essere considerato di nicchia, secondo Valentino “perché in questo modo è immaginato dai grandi distributori”. Ma Valentino ha fatto una scelta ancora più drastica: “Ho deciso di non proporre più i miei lavori ai festival finché non torneranno in presenza. Il festival online è seguito quasi esclusivamente dagli addetti ai lavori. Quando era possibile la modalità in presenza, persone non abituate a questo tipo di film potevano fruirne in quelle serate e avere la possibilità di appassionarsi. Il web è un oceano così grande che ognuno sceglie la sua isola: incredibilmente, non si cerca niente pur avendo a disposizione un mondo di possibilità. La curiosità è fondamentale”.

“A’ Pastellessa” è un documentario che racconta una tradizione e il rito ad essa associato. Come tutti i riti, è messa in primo piano la condivisione e l’auto affermazione.  “Le comunità hanno bisogno di sentirsi vive e parte di qualcosa” commenta Valentino. “Questo rigenera il tessuto della comunità stessa, che dalle tradizioni trae energia e linfa. In maniera inconscia, il rito si trasforma e assume le caratteristiche dell’epoca. Ne “A Pastellessa” ci sono elementi fuori luogo rispetto alla tradizione storica, ma frutto dello sviluppo della comunità. Vengono condivisi da tutti: chi fa i carri immagina di fare riferimento alla tradizione più pura. Ma uno spettatore si rende conto che tante cose cambiano, com’è giusto che sia. La cosa più interessante della rigenerazione è la presenza di bambini”.

Questo per un motivo ben preciso: “Un bambino che vive tra gli schermi dei telefonini, la scuola e pochi altri spazi, può fare tesoro del trovarsi in un gruppo e dell’avere un compito. A volte, però, manca la capacità critica degli organizzatori. Questo, in effetti, può diventare una zavorra se il bambino non si pone determinate domande. È una cosa che sento o che mi è stata indotta?

Il documentario è costruito attraverso un’ottima fotografia dalle riprese ampie. Ma non mancano i primi piani, in cui abbiamo l’opportunità di sentire la viva voce di chi il rito, anno dopo anno, lo costruisce con le sue mani. Un ragazzo, infatti, dichiara il carattere genetico del perseguimento del rito. Valentino la pensa diversamente: “Non si tratta di genetica, ma di appartenenza culturale. È il tessuto culturale che ti induce ad appassionarti”. È solo una conseguenza, insomma, che i protagonisti del documentario percepiscano di custodire il rito “nel sangue”.

Fondamentale nella cinematografia è l’immagine. Questo vale anche per la tradizione e il rito attraverso cui si esprime. Il documentario di Valentino si sofferma sulla dimensione visiva, ma anche su quella uditiva. Andrea Valentino spiega quali sono le differenze. “È un doppio binario” e racconta un aneddoto per spiegarmelo.

“Seguivamo i carri lungo la città, quando una signora ci si avvicina – eravamo armati di attrezzatura e strumentazione – e ci prega di portare dei gigli ai piedi del santo. Non poteva camminare e aveva promesso a Sant’Antuono di fargli trovare dei fiori. E noi lo abbiamo fatto per lei. Ho provato rispetto del suo rapporto diretto con Sant’Antuono. Invece, per far crescere l’unione della comunità, il rito di aggregazione passa attraverso l’attività corale. Non a caso i carri sono strapieni di persone”.

Ma cosa ha la precedenza tra il perseguimento della tradizione e le norme di sicurezza che, probabilmente, quest’anno la impediranno? “La pandemia ha spiazzato tutti. Dopo aver visto il documentario, immagina cosa vorrà dire per i cittadini di Macerata Campania dover rinunciare alla manifestazione. Stanno monitorando la situazione per capire se ci sarà la possibilità di farla. Ci proveranno fino alla fine. La situazione rappresenta un problema in qualsiasi ambito, dalla scuola alla produzione cinematografica. È difficilissimo capire quale sia la cosa giusta. Dal primo lockdown a oggi molte feste patronali sono saltate. Deve prevalere la legge, perché si tratta di una situazione straordinaria. Nessuno di noi conosce la soluzione. Loro stanno pensando di trovare un punto d’incontro. Ma non può esserci, perché la festa popolare è vissuta collettivamente e non può esserci un punto d’incontro in questo”.

“Io non mi sento parte di nessuna comunità ma sento la necessità di raccontare i motivi per cui gli altri lo fanno” confessa Valentino. “Fa parte della mia curiosità di narratore: è parte della realtà che mi circonda. Voglio capire perché perdiamo certe cose, perché su alcuni aspetti siamo più avanti degli altri. Cerco di leggere la realtà che ci circonda e cerco di interessarmi alle cose più lontane da me”.

La pandemia colpisce i progetti di tutti. Ma in primavera sarà avviata una nuova produzione. Non un vero e proprio documentario, ma un lavoro il cui tema centrale sarà la memoria, tema non troppo distante dagli altri lavori di Valentino. Il titolo sarà “Il solito pranzo” e parlerà dei protagonisti dell’antimafia. Il film è sovvenzionato dalla SIAE. La storia sarà consegnata in forma di commedia. Un primo nome è già stato svelato: si tratta di Carlo Di Maio, che interpreterà Don Peppe Diana.

Poco prima di iniziare la chiacchierata, Andrea Valentino ha ricevuto una notizia, Me la confessa: ha appena vinto in qualità di produttore il premio RIFF con il film documentario “La Conversione” (come Miglior Documentario Italiano) con regia di Giovanni Merola.

La pandemia ha fermato tutto, ma proprio tutto forse no.

Lorenza Sabatino

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