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opo settimane di voci e di smentite Federico Ghizzoni lascerà l’ Unicredit di cui è amministratore delegato. Lo ha deciso, come è giusto che sia, il consiglio d’amministrazione della banca.
Lo ha deciso in quelle stanze dove i soci sono rappresentati in modo chiaro e i consiglieri rispondono delle loro scelte davanti al mercato e alla legge. Ma nelle ultime settimane, mentre il gruppo, i suoi dipendenti, i suoi piccoli azionisti e i suoi clienti venivano lasciati in balia di troppe voci, in altre stanze si è discusso e deciso a lungo – con modalità e obiettivi non pubblici – delle sorti di Unicredit e dei suoi vertici.
Bisogna allora interrogarsi su quanto è accaduto e su chi sono i veri protagonisti della vicenda. Il management, in testa Ghizzoni, ha senza dubbio responsabilità : la disaffezione della Borsa per il titolo (circa il 40% in meno da inizio anno) dipende anche da mosse improvvide come quella che ha spinto la banca a muoversi per garantire il fallimentare aumento di capitale della Popolare di Vicenza o dai ritardi di esecuzione in operazioni già annunciate, come quella sul risparmio gestito di Pioneer con gli spagnoli del Santander.
Ma Ghizzoni, paradossalmente, paga anche la sua scarsa tenuta verso soci troppo ingombranti. In queste settimane, al tavolo delle consultazioni informali per l’uscita dell’ad, si è visto ad esempio Fabrizio Palenzona, da un trentennio in moto perpetuo tra la politica piemontese, la Fondazione Crt e la stessa Unicredit di cui è vicepresidente dal 1999. Accanto a lui anche Paolo Biasi, che oggi come unico titolo ha quello di essere ex presidente della Fondazione Cariverona, retta per la bellezza di 22 anni prima di essere costretto a lasciare nel febbraio scorso. Sono due dei protagonisti degli ultimi lustri della storia di Unicredit: tra quelli che hanno prima assecondato Alessandro Profumo nel suo disegno di crescita per poi metterlo fuori; gli stessi che hanno scelto Ghizzoni; gli stessi che hanno approvato piani industriali evidentemente non appropriati e sostenuto manager che non funzionano più. Ma i manager passano e se sbagliano pagano – in effetti vengono pure pagati, vista l’entità di certe buonuscite – mentre gli uomini delle fondazioni rimangono. Anche a dispetto dei risultati raggiunti. Dal 2010 al 2015 il patrimonio della Fondazione Crt è sceso da 2,8 a 2,1 miliardi; quello della Cariverona da 4,3 a 2,2 miliardi, anche per gli aumenti di capitale della banca che hanno dovuto sottoscrivere. Chi paga il conto per questi risultati?
Era il 1990, più di un quarto di secolo fa, quando la legge che porta il nome di Giuliano Amato scosse la «foresta pietrificata» del credito e inventò le fondazioni da mettere tra il potere politico e il mestiere della banca. Troppo spesso, però, non sono state intercapedine tra questi due ambienti, ma agile snodo. Dal 1990 si è consumata un’intera era politica e una nuova generazione ha preso il potere. Il Paese si avvia addirittura a cambiare la sua legge costituzionale. Ma il sistema di potere dove la politica e il credito si abbracciano inestricabilmente, quello no; non cambia mai.
L’avvocato Giuseppe Guzzetti, alla guida delle fondazioni bancarie riunite nell’Acri dal 2000 e che nel 2017 compirà un ventennio da numero uno della Cariplo, già consigliere regionale lombardo nel 1970, quando chi scrive frequentava la prima elementare, difende con vigore e passione ammirevoli le virtù delle fondazioni; si tratta di azionisti di lungo corso – dice – che danno stabilità al sistema. Nei casi più virtuosi è vero: la stabilità in anni di grandi sommovimenti può essere un valore nel breve periodo; anche se nel più lungo rischia di far rima con immobilità e di ritardare solo cambiamenti che comunque dovranno verificarsi. Anche Guzzetti e l’Acri dovrebbero però chiedersi se è utile e opportuno che le stesse facce, gli stessi nomi, gli stessi interessi consolidati, restino stretti e avvinghiati alla base del potere bancario. Se la foresta del credito oggi in Italia è malata è per una varietà di motivi, non ultimo quello di una recessione che ha portato indietro il Paese di dieci anni e di un sistema che sulle banche ha sempre contato troppo. Ma per curare gli alberi alle volte non serve solo sfrondarli o tagliare qualche «ramo secco», per usare una espressione che non casualmente accomuna botanica e finanza. Talvolta bisogna intervenire sulle radici: anche quelle più sotterranee.
vivicentro.it/editoriale –  lastampa/Alle radici della crisi di Unicredit FRANCESCO MANACORDA
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