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Castellammare di Stabia

Al capolinea. Un patto scellerato LORENZO VIDINO*

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Zero problemi con i vicini». Era questo il celebre motto con cui Erdogan e Davutoglu ridefinirono la politica estera turca allorché il loro partito, l’Akp, giunse al potere nel 2002.  

Sospinta dal boom economico e da un ritrovato fervore neo-ottomanista, la nuova Turchia si vedeva come una potenza regionale, in progressivo allontanamento da un’Europa che l’aveva respinta e volta a giocare un ruolo guida nel bacino mediorientale. E l’Occidente stesso, Washington in primis, vedeva gli «islamisti moderati» turchi come modelli per la regione e alleati affidabili.  

La realtà turca di oggi, dopo quasi quindici anni di strapotere dell’Akp, è tutt’altra cosa. Internamente, Erdogan, dopo aver coltivato un’immagine di moderato, ha chiaramente dimostrato forti tendenze autoritarie. Nemici politici, militari, giudici e critici vari sono stati eliminati con mezzi che vanno da investigazioni giudiziarie kafkiane alle minacce a, in certi casi, violenza pura. E’ indicativo in tal senso che «Reporters Senza Frontiere» metta la Turchia, Paese che imprigiona più giornalisti di Cina e Iran, al 148mo posto al mondo per libertà di stampa. Le politiche di Erdogan hanno anche portato ad una recrudescenza del terrorismo domestico, sia di matrice marxista-leninista (con vari attentati compiuti dal gruppo Dhkp-c) che curda (visto anche il fallimento dei colloqui di pace con il Pkk). 

Ma i recenti attentati di matrice jihadista in Turchia (di cui quello alla piazza Sultanahmet è solo l’ultimo di una lunga scia) dimostrano il totale fallimento della politica estera turca, in particolare dall’inizio delle Primavere Arabe. Dapprima Erdogan ha supportato il fallito progetto dei Fratelli Musulmani e delle loro emanazioni nella regione, provocando le ire della maggior parte dei regimi arabi. Ma è con l’inizio del conflitto siriano che la vera spirale turca ha inizio. Il supporto cieco per l’opposizione crea tensioni per Ankara non solo con il governo di Bashar al Assad, ma anche con l’Iraq e soprattutto l’Iran, il grande protettore di Damasco. Per non parlare di Mosca, il grande vicino del Nord con il quale le tensioni, in particolare dopo l’intervento russo in Siria, sono al massimo.  

Nonostante questi crescenti problemi, Ankara ha continuato a sostenere vari gruppi dell’opposizione siriana, incluse le più estremiste. I detrattori di Erdogan, curdi in primis, parlano di aperto supporto da parte dei servizi turchi all’Isis, con tanto di forniture di armi e intelligence. Prove provate in tal senso mancano. Ma è evidente che per anni la Turchia ha facilitato l’operato di vari gruppi islamisti operanti in Siria, da Jabhat al Nusra all’Isis stesso, consentendo loro di agire impunemente da entrambi i lati del confine turco-siriano. Che la Turchia sia il punto di passaggio in entrata e in uscita per le migliaia di foreign fighters europei (attentatori di Parigi inclusi) è risaputo. Come è ben noto che il governo turco abbia consentito scambi commerciali clandestini, quali quello del petrolio, che hanno permesso all’Isis di arricchirsi.  

Questa politica scellerata ha portato Ankara a scontrarsi non solo con le varie forze regionali, mutando la politica dello «zero problemi con i vicini» in quella del «molti problemi con tutti i vicini», ma anche con l’Europa e l’America. Tutto ciò ha comportato una scia di attentati di matrice jihadista che non pare fermarsi. Negli ultimi mesi, infatti, da quando la Turchia, nonostante le sue ambiguità, si è unita alla coalizione internazionale anti-Isis, il network di cellule e strutture di supporto creato dall’Isis in tutta la Turchia ha cominciato a mobilitarsi per compiere attacchi. Gli obiettivi svariano dall’opposizione curda a turisti stranieri (com’è accaduto ieri). Ma anche obiettivi militari, civili e politici turchi. La strategia di Erdogan pare aver avuto un effetto boomerang e, ora che il governo turco cerca di staccare il cordone che lo lega al jihadismo in salsa siriana che ha nutrito per anni, non ci si può aspettare altro che una risposta di sangue da parte dell’Isis.  

 

*Lorenzo Vidino è il direttore del Programma sull’Estremismo alla George Washington University  / lastampa

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