Minniti: «Un paese migliore di quello che abbiamo trovato. Continueremo»

Intervista di Claudio Velardi al ministro dell’Interno Marco Minniti per il quotidiano Il Foglio “Il...

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Intervista di Claudio Velardi al ministro dell’Interno Marco Minniti per il quotidiano Il Foglio

“Il rapporto tra ricerca e impresa è il punto fondamentale che fa forte il sistema Paese – dice Marco Minniti, intervistato da Claudio Velardi -. La ricerca sull’Italia che cambia dimostra che abbiamo capacità, tecnologia e capitale umano per passare dalla gestione delle emergenze alla programmazione concreta di politiche” Il ministro è intervenuto alla presentazione dell’analisi sviluppata dalla Fondazione Ottimisti e Razionali Anteprima 2018 – L’Italia che cambia. La faccina “verde” indica una condizione di accentuato dinamismo. La faccina “gialla” esprime segnali di evoluzione positiva. La faccina “rossa” si associa ad una condizione di staticità o a un’area di miglioramento. Tutte e tre, comunque, rivelano potenzialità di cambiamento.

Partiamo da questi dati. Al di là della tua attività specifica, il polso del paese – e non solo del paese – tu ce l’hai, li vedi questi dati nella realtà, avverti che ci sono cose che si muovono?
«Innanzitutto condivido l’idea della Fondazione. E cioè un approccio che sia razionalmente ottimistico. Anche se – non vorrei dare una cattiva notizia – mentre Velardi lo vedo bene come ottimista, lo trovo un pochino meno bene collegato alla parola razionale…»

Questo è un colpo basso…
«… ma veniamo allo studio: ritengo che colga un movimento profondo del paese. Viviamo in una situazione singolare: pensiamo al fatto che siamo a conclusione di una legislatura, che mancano pochi giorni, poche settimane, e si tornerà a votare. Solitamente, quando finisce una legislatura, chi ha governato si presenta agli elettori con un bilancio di quello che ha fatto. Ora, se noi andiamo con la mente al febbraio del 2013 sembra di essere in un altro mondo. Nel febbraio del 2013 il più ottimista pensava che si sarebbe votato a ottobre dello stesso anno. Se qualcuno nel febbraio del 2013 avesse detto che si sarebbe votato nel marzo o nell’aprile del 2018 avrebbero chiamato un’ambulanza. Eppure, è esattamente quello che è successo. Lo dico perché abbiamo di fronte un paese che ha fatto giganteschi passi in avanti. E qual è l’elemento più forte, più convincente, per coloro che hanno portato a compimento un’esperienza di governo, tenendo conto che sono cambiati tre governi in questa legislatura, uniti comunque da un fil rouge evidente? Quello di presentarsi e dire che porto al voto un paese migliore di quello che ho trovato. A mio avviso questa è una cosa abbastanza evidente, starei per dire scontata. Il problema è che anche le evidenze talvolta non vengono colte: avevamo uno spread fuori controllo, una situazione dell’economia tutta in negativo, una situazione difficile sul fronte del terrorismo internazionale, una situazione molto grave sul piano del governo dei flussi migratori. Insomma, una situazione molto peggiore di quella di oggi; e penso che si debba trasmettere il messaggio di cambiamento possibile, perché il paese ha di fronte grandi opportunità».

Non dovrebbe essere la politica a farsi carico di queste opportunità, partendo da questi dati, per sviluppare proposte e progetti? Intendo tutta la politica, al di là degli schieramenti?
«Intanto, mi accontenterei di quei soggetti politici che questi risultati li hanno prodotti. Poi se accanto a loro si facessero vivi anche quelli che magari hanno contribuito in parte minore, e perfino coloro che hanno ostacolato il nostro lavoro ma che sono contenti per i successi conseguiti dal Paese, ecco, allora saremmo nel migliore dei mondi possibili. Questo è un problema permanente dell’Italia: costruire un rapporto tra coloro che investono sul futuro ed il sentiment della classe dirigente. Quando penso ad una classe dirigente, non penso soltanto alla rappresentanza istituzionale di un paese, penso all’intero ponte di comando del Paese, che continua a mio avviso ad essere ancora oggi troppo ripiegato su se stesso. Un ponte di comando che si guarda troppo l’ombelico. Mentre abbiamo di fronte un’energia positiva che andrebbe non soltanto liberata, ma anche incanalata in quanto risorsa fondamentale del paese. Faccio un piccolo esempio: sono andato a Napoli, dove abbiamo firmato con 265 sindaci un progetto per la cosiddetta accoglienza diffusa dei migranti. L’obiettivo è semplicissimo: aumentare la possibilità di accogliere coloro che arrivano nel nostro paese, con numeri molto contenuti; il che permetterà di sviluppare effettive politiche di integrazione e di tenere nel giusto conto tanto i diritti di chi è accolto quanto quelli di chi accoglie, perché un’elevata concentrazione di migranti in un territorio crea diffidenze, squilibri, incomprensioni. Ora, la cosa più straordinaria è che, su un tema così difficile, su un tema che sta interrogando l’Europa, per usare un termine prudente, ci sono 265 sindaci, che rappresentano tutte le formazioni politiche, disposti a sottoscrivere l’accordo. Qual è la lezione? È che più ti avvicini al territorio, a coloro che sono protagonisti di questo sforzo, e più il tessuto connettivo è coeso; più ti allontani e più vale la diversità. Dobbiamo riprendere in mano quest’idea, se vogliamo sviluppare un modello di sistema paese adeguato, modelli che in altre democrazie europee sono fortissimi. Il rapporto, per esempio, tra ricerca e impresa, che in altri paesi è un elemento quasi connaturato, da noi diviene un elemento, starei per dire, preterintenzionale. Per questo considero lo studio condotto dalla Fondazione un segnale molto forte e positivo, che coniuga futuro ed innovazione. Semmai, la mia preoccupazione è che tutto questo, ad un certo punto non riesca a incontrarsi con un processo istituzionale affinché ciò che è potenziale diventi effettivo. Ecco, temo una divaricazione, una diacronia tra il bisogno di futuro di un paese ed una risposta istituzionale, non dico proiettata nel passato, perché sarebbe eccessivamente pessimista, ma troppo ancorata al presente».

Questo tema del necessario ritorno ad un senso di comunità lo hai incontrato proprio intorno alla delicata questione della sicurezza, che incrocia da una parte le preoccupazioni più forti della gente, e dall’altra attiva molti residui ideologici. Come hai fatto a vincere questa sfida, che è culturale e simbolica, proprio sul tema della sicurezza? Perché non c’è dubbio che l’hai vinta, oggi la gente si fida di Minniti.
«Per affrontare la grande sfida dei flussi migratori, che ci ha accompagnato in passato e ci accompagna e ci accompagnerà anche in futuro, abbiamo tentato di fare una cosa che può apparire ardita. La sfida è stata cancellare la parola “emergenza” collegata ai temi dell’immigrazione: non ci sono riuscito del tutto, perché se voi guardate i sottopancia televisivi, l’espressione è quasi sempre “emergenza immigrazione” – anche quando la notizia è molto positiva. Il problema è che le due cose non stanno insieme. Perché appunto l’immigrazione è una questione strutturale che va affrontata con politiche che non siano emergenziali. Anzi. Nel momento in cui tutti ci interroghiamo su questo vento che gonfia le vele dei populismi, dobbiamo dire una cosa semplicissima: che affrontare le grandi questioni strutturali con la parola emergenza gonfia, appunto, le vele dei populisti. Il problema era di dire che di fronte ad una grande questione epocale come quella dei flussi demografici, una grande democrazia non insegue i processi, ma cerca di governarli. Questa è una questione delicata, che tocca i sentimenti profondi delle persone, e deve essere affrontata tenendo conto di due cose che agli italiani stanno molto a cuore: l’umanità e la sicurezza. I nostri cittadini non vogliono soltanto una delle due, vogliono poter dire che sono un paese capace di gestire politiche di accoglienza, politiche che siano attente all’aspetto umano, e vogliono che ciò avvenga in condizioni di sicurezza. Questo è l’approccio che abbiamo cercato di adottare, sapendo che ciò significa affrontare un tema che è collegato ad una parola. La parola è “paura”. So bene che, soprattutto in alcuni ambienti da cui noi storicamente proveniamo, l’idea di parlare della paura è qualcosa da mettere immediatamente da parte. E’ una parola che evoca uno stato d’animo molto profondo, tanto che quando uno ha paura non lo dice nemmeno alla persona che ha più vicino, perché pensa che quello sia un elemento di debolezza, di fragilità. Ecco, il mio convincimento è questo: la questione va esplicitamente affrontata, perché se a uno che ha paura gli dai la sensazione di biasimarlo, crei un muro di incomunicabilità, la persona si chiude, erige un muro, non vuole più sentirti. Tu devi stare accanto a quelli che hanno paura. La differenza che c’è tra noi e i populisti, è che noi stiamo accanto a quelli che hanno paura con l’idea di liberarli dalle loro paure; i populisti stanno accanto a quelli che hanno paura con l’idea di tenerli incatenati alle loro paure: questo è il cuore della questione che noi stiamo affrontando, e questo riguarda l’immigrazione, la sfida del terrorismo internazionale. Non possiamo consentire che il futuro sia offuscato e in qualche caso cancellato dalla paura».

A proposito della necessità di non considerare come un’emergenza una questione strutturale, emergono – penso – due grandi temi: il primo riguarda i tempi della politica, che sono troppo corti per affrontare con serietà questioni strutturali di questa natura; il secondo è la dimensione mondiale ed europea di queste problematiche. Non pensi che sia così?
«La politica è consumata dalle parole, questo è il punto. Io ho fatto una scelta molto radicale, anche se mi è quasi venuta naturale: arrivato al ministero dell’Interno, ho continuato a fare quello che facevo prima. Prima mi occupavo di intelligence: non andavo in televisione perché colui che rappresenta l’intelligence non può andare in televisione. E ciò mi aveva fatto trovare un equilibrio, nel senso che facevo il mio lavoro, e quando qualcuno mi chiamava, cosa molto rara, dicevo “l’intelligence non va in televisione” Poi ad un certo punto…»

In realtà non ha mai amato parlare, Marco…
«Ad un certo punto sono diventato ministro dell’Interno, cosa che mal si attaglia al fatto che uno deve essere tanto riservato, ma ho fatto finta di continuare a fare il mestiere di prima. Perché? Perché ci sono due cose che la politica dovrebbe imparare: la prima è che siamo di fronte ad un tale abisso di difficoltà nel rapporto con la comunicazione, e del logoramento delle parole, che conviene in molti casi aspettare un pochino in più e anziché dire una parola o un verbo coniugato al futuro, trasmettere magari un piccolo fatto. Lo so, il verbo coniugato al futuro è più semplice da maneggiare del piccolo fatto. E tuttavia, se non riprendiamo la credibilità del fatto, non riusciremo a costruire un buon rapporto di comunicazione con gli altri».

Insomma: niente annunci.
«L’hai detto tu. La seconda questione è la pazienza della costruzione. In questo anno ho cercato di mettere in campo una visione. Non consideratemi come uno che si prende troppo sul serio; ho cercato di mettere in campo qualcosa che funzionasse, che avesse un punto collegato all’altro. Così ho imparato ad aspettare pazientemente che una situazione si consolidasse senza anticiparla. E’ la cosa più difficile che si possa maneggiare, perché quando tu ottieni un risultato, sei portato immediatamente a valorizzarlo. Un esempio. II 2 febbraio, qui a Roma, è stato firmato dal presidente Gentiloni e dal presidente al-Sarraj, un memorandum con la Libia sulla gestione dei flussi migratori e sulla lotta al terrorismo. Come è noto, nessuno sapeva nulla prima. Lo abbiamo annunciato quando Gentiloni e al-Sarraj l’hanno fisicamente firmato. Questo non perché io avessi una particolare cura per la segretezza, ma perché finché non lo vedevo firmato, non credevo che quell’accordo sarebbe stato possibile. Ecco cosa intendo: la pazienza di conservare un piccolo risultato per poi poterne raccontare uno più grande. Questo è un punto fondamentale: il rapporto tra la politica e la modernità nella comunicazione deve essere sempre quello, sei tu che ti assumi le responsabilità. Vi confesso una cosa, lo dico con il cuore in mano: io mi sono assunto in questo anno delle responsabilità – qualcuno può dire piccole, grandi, ma me le sono assunte. In alcuni momenti ho preso anche decisioni importanti. Non so quali decisioni avrei preso se fossi stato direttamente e concretamente in contatto con quelli che consideravo essere i miei followers, i miei riferimenti. Quando si devono prendere decisioni importanti, se è possibile, è utile ascoltare tutti, ma senza fissare altri riferimenti che gli interessi generali del paese».

Hai ragione, anche se devo dire che i follower virtuali sono un poco come le folle che riempiono le piazze: una volta ci si animava perché si vedevano piazze piene e poi le urne erano vuote, adesso le piazze sono sostituite dai follower. E comunque la sostanza di quello che dice Minniti è che non bisogna inseguire: i politici devo indicare una strada, gli studenti Luiss che sono qui prendano nota. Andiamo alla dimensione internazionale dei problemi, perché tu sei il ministro dell’interno ma hai fatto anche molta politica estera, in sostanza.
«Penso che in altri paesi ci sia una visione più ottimistica su di noi di quella che abbiamo noi stessi. Possiamo dire due cose, che sono considerate caratteristiche del nostro paese. Primo: non abbiamo mai un orizzonte libero e chiaro, non siamo un paese che butta il cuore oltre l’ostacolo, è sempre come se avessimo un freno a mano tirato; secondo: siamo un paese fortemente emotivo. Detto questo, sono convinto che l’Italia abbia una straordinaria possibilità: essere protagonista sempre di più a livello internazionale. Ma se vogliamo avere un ruolo a livello internazionale dobbiamo metabolizzare e gestire meglio una cosa che è inscritta nel nostro DNA, e cioè che l’Italia è storicamente il paese della dimensione sovranazionale. Siamo un paese multilaterale, siamo il paese europeo più europeista e questo non è un dato negativo. Siamo il paese che guarda alle grandi realtà, come le Nazioni Unite con impegno, passione, convincimento. Anche qui, consentitemi di fare un esempio. Abbiamo avuto il problema di flussi migratori difficilissimi da gestire; ricordo alla fine di giugno, quando in 36 ore sono arrivati in Italia più di 13.500 migranti. Abbiamo dovuto fare uno sforzo straordinario. In quel frangente, una cosa mi è parsa chiarissima. Io potevo andare in Tv e dire: “l’Europa faccia la sua parte, l’Italia non può essere lasciata sola”. Ho pensato che non era più sufficiente, che se volevo che l’Europa facesse la propria parte, l’Italia doveva fare la sua e dimostrare di saper governare l’immigrazione illegale. Così, noi il 2 febbraio abbiamo firmato l’accordo italo-libico e il giorno dopo l’UE ha fatto proprio l’accordo che l’Italia aveva firmato. Se avessimo invertito i fattori, eravamo ancora qua. Veniva qui Minniti, magari un pochino più stanco, e vi avrebbe detto l’Europa deve fare la sua parte, e voi l’avreste gratificato di un applauso, perché noi siamo particolarmente contenti quando possiamo dirci che il problema è un altro».

Con l’ultima domanda buttiamoci in politica: andiamo a votare e vedo i nomi dei candidati alla Presidenza del Consiglio. Anche il tuo partito ne produce una serie, tu sei tra i candidati, mi pare di leggere, ma noi eleggeremo un presidente del consiglio. Non mi pare, o no?
«Intendo la messa in campo delle personalità del Pd non come una indicazione di chi deve fare il Presidente del Consiglio, ma come la messa in campo del progetto di un gruppo dirigente, di una squadra di governo. Io lo considero da questo punto di vista un elemento molto positivo, penso che il mio partito abbia un pezzo della campagna elettorale già scritto, che è esattamente questo: oggi vi consegniamo un paese migliore di come l’abbiamo trovato. Non è uno slogan complicato, non è uno slogan di cui vergognarsi, non è uno slogan che può essere discusso. Allora se l’idea è vi consegniamo un paese che non ha risolto i suoi problemi ma sicuramente è migliore di come era prima, l’idea di presentare una squadra di coloro che si sono cimentati in questo sforzo mi pare abbia senso».

In pratica: continuare. Questo è lo slogan?
«Continuare. A me piace la parola continuare».

Nel senso di un lavoro che continua.
«Il cuore della questione è mettere in campo una squadra che lavori insieme, che trasmetta un’idea della politica come qualcosa che ha a che fare con i rapporti umani. Ora, qui entro in un terreno delicato. Credo che abbiamo una gigantesca questione, quella della credibilità della politica. La politica non può essere ridotta ad una tragedia shakespeariana di serie b. Come se ci fosse permanentemente una sorta di ombra di Banco, che sta dietro ognuno di noi, per cui c’è sempre qualcosa, qualcuno da cambiare, c’è sempre qualcuno da sostituire. La politica sono rapporti umani, la politica può significare anche vere amicizie. Lo so che voi non mi crederete, ma io e Velardi ci conosciamo dal 1974, da 43 anni. Velardi è uno dei pochi ancora in vita che mi ha visto con i capelli».

Veramente ce li avevo pure io!
«Beh, io credo veramente in questi valori. E penso che per un politico la cosa peggiore sia rimanere solo. Ci vuole un di più anche di elemento umano, anche se c’è da scazzarsi lo si fa, internazionale ma non per sostituirsi a vicenda, perché così alla fine si rimane soli, che per un politico è la cosa peggiore… No, io non penso a nessuno, sto facendo un ragionamento di carattere generale. Poi è chiaro che i momenti della vita ti portano ad incontrarti o a perderti, ma se qualcuno mi dovesse chiedere oggi se ho cambiato i miei giudizi di fondo su compagni e compagne con cui abbiamo passato un pezzo della nostra vita, io direi che non l’ho cambiato. Direi così per una ragione semplicissima: perché il problema non è di quelli che sono cambiati, il problema è che non sono cambiato io».

E su queste impegnative parole conclusive, direi che a nome vostro possiamo ringraziare il Signor Ministro dell’Interno Marco Minniti.
«Avanti con Ottimisti e Razionali!»

vivicentro.it/POLITICA

/ministero degli interni

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