Ai microfoni di Radio Crc, Raffaele Auriemma ha dichiarato: “Il presidente De Laurentiis anticiperà di tasca propria i soldi per i primi lavori al San Paolo. E’ stato già contattato Raffo Art che dovrebbe fare questi murales per dipingere le due murate laterali, ma anche all’interno del corridoio che porta agli spogliatoi. Verrà rifatto tutto lo spogliatoio anche se è tenuto bene. Verrà rifatto anche lo spogliatoio ospite. Verrà rifatta anche la tribuna stampa, ci saranno anche i bagni, due per maschi e due per le donne”.
Fabinho dice sì, il Napoli può arrivare al difensore
Secondo quanto riporta Sky Sport, Fabinho, difensore classe 93 del Monaco, avrebbe accettato la proposta del Napoli essendo attratto dal progetto tecnico azzurro. I partenopei, adesso, devono convincere il club francese a farlo partire. Sul ragazzo ci sarebbe forte l’Atletico Madrid.
Higuain: “Napoli? Testa all’Argentina”
Ai microfoni di Sky Sport, al termine di Argentina-Cile di Copa America, Gonzalo Higuain ha dichiarato: “Era una gara importante, contro un avversario duro e forte. C’era grande attesa, per fortuna abbiamo vinto. Pressione? Abbiamo una squadra forte, speriamo di dimostrarlo in ogni gara. Futuro? La mia testa è solo sulla Nazionale. Dopo la Copa ne parleremo”.
L’Ischia spera nel consiglio Federale per il ripescaggio. Oggi la decisione

Siamo giunti finalmente al giorno tanto atteso. Oggi pomeriggio il Consiglio Federale scioglierà le riserve e deciderà il formato della Lega Pro per la prossima stagione,insieme agli eventuali ripescaggi. L’Ischia Isolaverde è aggrappata alla decisione che prenderà il Consiglio Federale per l’eventuale riammissione in Lega Pro. A distanza di oltre una settimana dalla retrocessione in Serie D,in seguito al play-out contro il Monopoli,la società gialloblù sta lavorando ancora una volta lontano dall’isola. C’è da dire che dopo una stagione fallimentare con a seguito la retrocessione, è rimasto il solo Vicky Di Bello a capo della società. Come già vi stiamo raccontando da qualche giorno,i soci stanno prendendo altre strade: Marco Manna è a un passo ad entrare in società con il Gragnano che milita in serie D,Colantonio ha confermato il suo rapporto con la Turris dove gestirà il settore giovanile e con Rapullino che dopo le dimissioni da presidente ha già fatto sapere che non proseguirà il rapporto con l’Ischia. Di Bello dunque in questo momento si trova a gestire una situazione davvero critica, per meglio dire una vera patata bollente. Il futuro per ora resta un punto interrogativo,anche perchè nell’ambiente tutto tace e dalla terra ferma non arrivano buone notizie. L’unica speranza è quella del ripescaggio. La squadra isolana oltre al Melfi retrocesso,è la candidata numero uno ad avere le speranze per essere riammessa nella terza serie. Il Consiglio Federale oggi pomeriggio, a Roma scioglierà qualsiasi tipo di dubbio per la prossima stagione. Il presidente Gravina,da quando è stato eletto ha messo le cose in chiaro: riportare la Lega Pro a 60 squadre rispetto alle 54 di questa stagione. Attenzione perchè si andrebbero così a creare sei posti liberi. Ma non è detto che saranno solo sei,perchè sappiamo che ormai da anni ogni estate tante squadre a partire dal girone A ,B e C spesso vanno incontro a delle problematiche finanziare. Altro argomento di cui si andrà a parlare nel Consiglio Federale,è il così detto “fondo perduto”,la cifra da depositare in Federazione per l’eventuale proposta di ripescaggio. Argomenti che riguarderanno l’Ischia,per programmare il futuro con la speranza di ripartire dalla Lega Pro ma stavolta con una società seria e con la giusta programmazione,e magari con qualche imprenditore isolano all’interno della società.
La carica dei giovani volontari, c’è il bando del servizio civile
Sono 35 mila i posti disponibili per i progetti in Italia e all’estero del servizio civile. L’opportunità per affrontare un’esperienza di cittadinanza attiva. Da Trieste fino al Venezuela. Per partecipare c’è tempo fino alle ore 14 di giovedì 30 giugno
Bando del servizio civile. Si va dalla digitalizzazione per condividere le fonti sulla stagione dei movimenti del 1966-1978 con l’Arci a Roma fino all’educazione e promozione culturali di attività sportive per disabili con le Acli a Trieste. Dai progetti in Venezuela con i Caschi Bianchi per gli interventi umanitari nelle aree di crisi fino alle iniziative della Caritas in Albania. Prendono il via i progetti di servizio civile in Italia e nel mondo nell’ambito dal dipartimento della Gioventù, Servizio civile nazionale, Regioni e Province autonome.
Nel complesso i progetti coinvolgeranno 35.203 giovani. I nuovi bandi pubblicati in questi giorni prevedono iniziative nell’assistenza, nella protezione civile, nell’ambiente, nella tutela del patrimonio artistico e culturale e nell’educazione e promozione culturale. Sono coinvolti piccoli e grandi operatori che con le loro iniziative danno l’opportunità ai giovani di avvicinarsi alla cittadinanza attiva per un anno intero.
I posti messi a bando per progetti di ambito nazionale e internazionale sono 21.359 (il bando). La gran parte dei giovani (20.651) coinvolti da questo bando verrà impiegata su progetti che si svolgeranno sul territorio nazionale mentre saranno 708 quelli che verranno avviati su progetti all’estero. La durata del servizio sarà di dodici mesi e l’assegno mensile che spetta ai volontari è pari a 433,80 euro.
In ambito regionale invece i posti sono in tutto 11.144. A livello regionale i posti saranno suddivisi in questa maniera: 355 in Abruzzo, 161 in Basilicata, 873 in Calabria, 2.514 in Campania, 958 in Emilia Romagna, 193 in Friuli Venezia Giulia, 978 nel Lazio, 245 in Liguria, 1.641 in Lombardia, 282 nelle Marche, 247 in Molise, 824 in Piemonte, 67 nella Provincia Autonoma di Bolzano, 107 nella Provincia Autonoma di Trento, 398 in Puglia, 544 in Sardegna, 1.962 in Sicilia, 607 in Toscana, 116 in Umbria, 17 in Valle d’Aosta e 755 in Veneto. Anche in questo caso, l’assegno mensile previsto è di 433,80 euro e la durata dei progetti è di dodici mesi.
Tempi e modi. I candidati dovranno scegliere il progetto a cui partecipare sul sito del Servizi civile e presentare la propria domanda all’ente che realizza il progetto. La candidatura deve arrivare all’ente entro le ore 14 di giovedì 30 giugno 2016. Le domande vanno presentate in carta semplice seguendo il modello presente nel bando di concorso (allegato 2) insieme ad una scheda in cui vengono specificati i titoli di studio (allegato 3). Ogni candidato può presentare una sola candidatura per un solo progetto da scegliere tra tutti quelli presenti nel bando. Se si presentano più domande, si viene automaticamente estromessi dal concorso.
L’iter della selezione. A scegliere i volontari da coinvolgere sarà l’ente titolare del progetto. Così come saranno gli organizzatori a verificare i requisiti come i limiti di età, il possesso della cittadinanza italiana e l’assenza di condanne penali. I risultati e le graduatorie dei candidati prescelti saranno così pubblicate via internet dall’ente organizzatore che indicherà anche la sede dove il volontario dovrà presentarsi il primo giorno di servizio e quella di attuazione del progetto.
L’attestato. Durante l’attività di servizio civile, i volontari sono dovranno rispettare l’orario di servizio e le condizioni che riguarderanno i possibili obblighi di pernottamento, o di altra natura, legati all’iniziativa. Al termine del servizio, l’Ufficio per il servizio civile rilascerà, ai giovani che hanno partecipato ai progetti, un attestato di espletamento del servizio civile volontario.
vivicentro.it/economia – repubblica/La carica dei giovani volontari, c’è il bando del servizio civile
ESCLUSIVA – Il futuro di Obodo, al momento, è ancora alla Juve Stabia!
Il futuro del centrocampista
Una stagione alla fine comunque positiva quella di Kenneth Obodo con la maglia della Juve Stabia. Arrivato dall’Alessandria nel luglio scorso, ha dipsutato 31 gare e messo a segno anche 2 gol. Buon rendimento, ma al momento qualche ombra sul suo futuro. Il calciatore ha ancora un anno di contratto, ma rumors riferiscono di una possibilità di cessione nella sessione estiva del calciomercato, visti i cambiamenti gialloblè a partire dalla panchina. Obodo potrebbe comunque essere utile alle Vespe in quanto in grado di garantire sostanza al centrocampo di Gaetano Fontana. Secondo quanto raccolto, in esclusiva, dalla redazione di ViViCentro.it, infatti, fonti vicine al calciatore riferiscono che al momento non c’è alcuna possibilità che venga ceduto, forte di un altro anno di contratto con il club, anche perchè la stessa società non ha comunicato nulla al suo enturage.
a cura di Ciro Novellino
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Leandrinho lusingato dell’interesse del Napoli: De Laurentiis lo vuole
I dettagli
La Gazzetta dello Sport scrive su Leandrinho: “Intanto, a Castel Volturno si è trattenuto per due giorni il giovanissimo Leandrinho, trequartista classe 1998 del Ponte Petra e grande protagonista al Mondiale U17 col Brasile. Leandrinho ha dormito da venerdì a domenica nell’hotel che domina il centro sportivo del club azzurro a Castel Volturno, ha visitato le strutture di allenamento del Napoli e fatto un giro della città per cercare di capire se potrebbe essere quella giusta dove consacrarsi. Trequartista, seconda punta o esterno d’attacco: Leandrinho ha giocato già 8 partite nello scorso Brasileirao. Ha il contratto in scadenza e il corteggiamento del Napoli pare che lo lusinghi. Per lui però c’è la fila e soprattutto un club di Premier (sembrerebbe il City) disposto a fare follie. De Laurentiis vuole investire ma non svenarsi”.
Il Punto 7 giugno
Il Punto 7 giugno: Analisi, approfondimento e commento di Cronaca, Poitica ed Economia della settimana a cura degli esperti de lavoce.info
Indebolito dal primo turno delle elezioni amministrative, il premier Matteo Renzi si trova un’altra gatta da pelare. Il bonus di 80 euro – suo grande successo del passato – è stato un regalo temporaneo per un milione e mezzo di cittadini – quelli agli estremi della fascia dei beneficiari. Chi stava in alto e chi troppo in basso si è ritrovato a non averne più diritto una volta fatti i conti sui redditi effettivamente percepiti.
In vista della legge di stabilità 2017, si parla di un’altra voluntary disclosure per regolarizzare capitali illegalmente detenuti all’estero. La prima, nel 2014, ha fatto emergere 60 miliardi (35 in meno dello “scudo” del 2009) con un gettito di 3,8 miliardi. Una sua ripetizione rischia però di annacquare la lotta all’evasione.
Da inizio 2016 rallentano le assunzioni a tempo indeterminato. Pesano la riduzione degli sgravi contributivi e la più lenta crescita del secondo semestre 2015. Rispetto a gennaio 2014, nel mercato del lavoro rimangono 500 mila occupati stabili in più. E una disoccupazione in lento calo.
Laburista sganciato dal vertice del partito, origine pakistana e islamico, da un mese sindaco di Londra, Sadiq Khan è quanto di più diverso si possa immaginare dal premier Cameron. Eppure insieme hanno fatto un comizio contro l’uscita del Regno Unito dalla Ue. Brexit divide i simili. Il rischio Brexit unisce i diversi.
Banche e imprese industriali europee, anche italiane, hanno pagato multe salate al governo Usa per violazione delle sanzioni contro paesi nella loro lista nera (come Iran, Cuba, Sudan). Le misure contro la Russia potranno portare altre grane alle nostre aziende che vi sviluppano un volume d’affari di 21 miliardi.
La cura dell’epatite C è stata rivoluzionata da un nuovo farmaco salvavita. Ma il suo prezzo è talmente alto che in Italia viene somministrato solo a pochi su un milione di malati. Chiamiamolo farmaco salva-poche-vite, allora.
Al Festival dell’Economia di Trento, appena concluso, si sono tenuti tre forum sotto la testata de lavoce.info. Ecco i video di questi dibattiti.
Spargete lavoce: 5 per mille a lavoce.info
Destinate e fate destinare il 5 per mille dell’Irpef a questo sito in quanto “associazione di promozione sociale”: Associazione La Voce, Via Bellezza 15 – 20136 Milano, codice fiscale 97320670157. Grazie!
- Chi restituisce il bonus di 80 euro. E perché
07.06.16
Massimo Baldini e Simone PellegrinoCon la dichiarazione dei redditi, quasi un milione e mezzo di contribuenti dovrà restituire il bonus Irpef. L’origine del problema sta proprio nella definizione di reddito e i casi possibili sono tanti. Sostituirlo con un aumento della detrazione da lavoro dipendente aprirebbe altre questioni. - Ci sarà sempre il perdono per gli evasori incalliti?
07.06.16
Giampaolo Arachi e Francesco Dal Santo
Una riproposizione della collaborazione volontaria sui patrimoni illecitamente detenuti all’estero produrrebbe pochi miliardi di gettito, comunque utili per fronte ai vincoli europei nel 2017. Il prezzo da pagare però sarebbe alto: il programma potrebbe essere letto come un incentivo all’evasione. - Cresce l’occupazione, anche se i flussi rallentano
03.06.16
Bruno AnastasiaPer capire cosa succede nel mercato del lavoro italiano bisogna considerare un orizzonte più ampio delle variazioni di mese in mese. Gli sgravi contributivi hanno comportato un anticipo dei flussi a fine 2015 in una sorta di investimento in capitale umano. Risale la quota del tempo indeterminato.
- Ritratto di Sadiq Khan, nuovo sindaco di Londra
03.06.16
Gianni De FrajaChi è il nuovo sindaco di Londra? Appena eletto ha parlato di speranza e unità. È laburista, ma lontano dalla nuova dirigenza. È contro la Brexit, come il primo ministro conservatore. E il fatto che sia di religione islamica non ha influenzato gli elettori. Il nodo del sistema dei trasporti. - Sanzioni: alle imprese europee la multa arriva dagli Usa
03.06.16
Francesco Giumelli e Giulia LeviAttraverso una sua agenzia, il Tesoro Usa commina multe a banche e aziende non statunitensi per violazione delle sanzioni verso alcuni stati. Finora le imprese italiane sono state risparmiate, ma le misure contro la Russia potrebbero cambiare la situazione. Il dollaro e gli scambi internazionali.
- Epatite C: se il farmaco costa troppo per essere usato
03.06.16
Cinzia Di Novi e Vincenzo CarrieriIn Italia i malati epatite C sono circa un milione. La cura della patologia è stata rivoluzionata da un nuovo farmaco che garantisce alte probabilità di eliminazione del virus. Ma ha un prezzo elevato. E dunque in molti casi non viene utilizzato. Disuguaglianze di accesso e protezione brevettuale.
Per Zielinski e Widmer, Pozzo chiede 31 mln
I dettagli
Il Messaggero Veneto scrive: “Continua a tenere banco il futuro di Piotr Zielinski, il trequartista polacco classe ’94 che nelle ultime due stagioni si è distinto all’Empoli. Sarri lo conosce per averlo allenato un anno e lo considera ideale per il Napoli che verrà. Il fatto è che la gioielleria Udinese è come sempre molto cara, ancor più adesso che i pezzi pregiati scarseggiano. Pozzo ha fatto il prezzo: Zielinski costa 16 milioni. De Laurentiis più di 12 non intende metterne. Il club partenopeo è interessato anche a Widmer (ma la prima scelta rimane Vrsaljko) e pure la prima valutazione dello svizzero è consistente: 15 milioni”.
Non solo Diawara, Giuntoli segue altri due calciatori del Bologna
I dettagli
Scrive il Corriere di Bologna: “Il primo nodo da sciogliere è senza dubbio quello relativo ad Amadou Diawara, gioiellino che il club valuta non meno di 15 milioni: il Valencia e il Siviglia – che giocherà la prossima Champions League – per ora si sono fermate a dieci milioni ma si tratta, così come è aperta una corposa discussione con il Napoli riguardante il sogno Manolo Gabbiadini, anche ieri sera presente al PalaDozza per gara-4 della Fortitudo. Giuntoli, dal canto suo, ha chiesto informazioni anche su Oikonomou e Masina, mentre al Bologna piace Valdifiori: il primo canale di lavoro per Bigon sembra proprio indirizzato verso quella Napoli che lo ha visto protagonista”.
“Lapadula ha scelto dove giocherà”, la mamma di Fiorillo gela il Napoli
Ecco cosa è accaduto
La Repubblica racconta un retroscena su Lapadula: “Ma chi sarà il centravanti del Genoa di Juric? Assodata la cessione di Pavoletti, il primo nome della lista resta sempre quello di Gianluca Lapadula, 30 gol (senza rigori) nel Pescara. Lo vogliono anche il Napoli dove però, chiuso da Higuain, rischia di fare la fine di Gabbiadini, la Juventus, che però sarebbe intenzionato a cederlo in prestito (eventualità non gradita al giocatore) e la Lazio. Ieri a Telenord ha telefonato la mamma di Fiorillo, portiere del Pescara che è genovese e sampdorianissimo (ma suo fratello è genoanissimo) dicendo che in questi giorni lei è in Abruzzo e sa che Lapadula ha scelto il Genoa come sua prossima destinazione perché avrebbe la possibilità di giocare titolare”.
Napoli-Atalanta 3-0, la finale d’andata della coppa Italia ’86/’87
I dettagli
Il giorno 7 giugno il Napoli ha giocato sette partite, tre in serie A, due in serie B e due in coppa Italia, ottenendo tre vittorie ed un pareggio, con tre sconfitte.
Ricordiamo il 3-0 all’Atalanta nella finale d’andata della coppa Italia-1986/87
Questa è la formazione schierata da Ottavio Bianchi:
Garella; Bruscolotti, Volpecina (88′ Bigliardi); Bagni, Ferrario, Renica; Sola (59′ Muro), Romano, Giordano, Maradona, Carnevale (81′ Caffarelli)
I gol: 67′ Renica, 71′ Muro, 77′ Bagni
Il Napoli si impose nell’edizione 1986/87 della coppa Italia vincendo, peraltro, tutte le partite. Dopo il 3-0 dell’andata gli azzurri si imposero anche nel ritortno a Bergamo: 1-0 con gol di Giordano.
sscnapoli.it
De Magistris: “Ora siamo un soggetto politico nazionale”
Il sindaco uscente, De Magistris, ha ottenuto il 42, 82 per cento dei voti
È il più votato dei sindaci uscenti nelle grandi città E non ha nessun grande partito alle spalle È quanto basta per spingere Luigi de Magistris, forte del suo 42,8 per cento, verso l’enfasi del giorno dopo, i toni solenni della «rivoluzione che ormai parte da qui», la carica di motivazione che serve a tutti i suoi per vincere al rush finale del ballottaggio, il 19 giugno. Una soddisfazione quasi al limite con la commozione. «Abbiamo portato a casa un risultato senza precedenti – esordisce de Magistris – Non si è mai visto niente di simile nella storia del nostro paese. Mai niente di simile in Europa, e senza avere alle spalle neppure i numeri e la struttura del Movimento 5 Stelle. Anzi vorrei dire che Luigi de Magistris, lo vorrei ricordare agli esponenti pentastellati, quei contenuti li applica e li porta avanti, ma noi siamo un po’ più inclusivi, più aperti».
De Magistris parla di sè in terza persona, continua a raffica per un’ora, quasi tutto d’un fiato. E parte dal rivendicare la vittoria non contro il Pd di Valeria Valente, ma direttamente contro il premier. «Non si è mai visto che un sindaco che esce dal governo di una delle città più difficili al mondo, che era partito in pre-dissesto, riesce a vincere con questa affermazione avendo contro il presidente del Consiglio Renzi e tutto il suo governo e i suoi alleati ufficiali e non ufficiali, avendo contro campagne stampa, poteri forti e le camorre. Ecco perché dobbiamo lottare e stare all’erta fino alle ore 23 del 19 giugno. Al premier poi qualcuno deve dire che può stare tranquillo: quello che voleva fare lui, la più grande operazione di rottamazione del Pd, l’abbiamo fatta noi. Ma attenzione, non mi sto mica candidando a fare il commissario Pd». E ancora: «Mi rivolgo agli elettori dicentrosinistra e centrodestra, al Pd e agli astenuti: non è bello che tanti napoletani non siano andati a votare».
Poi ai microfoni di Repubblica tv, guardando al ballottaggio, de Magistris puntualizzerà: «Lancio serenamente, pacatamente la richiesta di un particolare segno di attenzione ai seggi, tra quindici giorni, alla prefettura e a tutti perché l’altra notte abbiamo visto cose che non ci sono piaciute, abbiam visto anche sgherri e teppaglia e lo abbiamo denunciato a chi di dovere».
Ore 14.53. Il sindaco uscente arriva con una manciata di minuti d’anticipo nella sala dell’hotel Oriente, ha fretta di parlare, stanchissimo e carico, lucido e affilato. Prima domanda, ora che è stato legittimato in funzione anti-renziana sarà tentato dall’avventura delle politiche del 2018? Risponde senza esitazioni: «Io non mi candiderò a niente altro, perché già fare il sindaco di Napoli è l’esperienza più impegnativa che ci sia». Ma c’è un “ma”. «Ma – argomenta de Magistris – certamente Napoli diventerà un soggetto politico autonomo, questo sì. Un soggetto politico importante e nazionale. Napoli bisognerà studiarla. Napoli diventa capofila di un grande movimento di liberazione: da cosa? Da un sistema corrotto oligarchico mafioso e liberista. Non solo in Italia, ma in Europa».
Insomma, de Magistris non si candida premier solo perché si sente un leader internazionale? Sorriso, compiacimento mischiato all’autoironia: «Ma non sono io che voglio essere un leader internazionale. Siamo noi come squadra, come movimento orizzontale, ad avere intercettato la volontà e le energie culturali e politiche per una rivoluzione dal basso. Qui a Napoli siamo già modello di un movimento di autogoverno, autogestione, autodeterminazione dal basso. Solo che fuori di qui non lo hanno capito: parlano di “populismo”, minimizzano, ghettizzano. Ma come si vede, è stato un errore minimizzare. Venissero qui a vedere, venissero a visitare la città, a farsi contaminare da questa rivoluzione. Napoli sarà la capofila delle città ribelli contro un sistema oppressivo soffocante. Che si guardi a aNapoli come ad Atene e a Barcellona».
vivicentro.it/sud/politica – repubblica/De Magistris: “Ora siamo un soggetto politico nazionale” CONCHITA SANNINO
Tutti gli errori del Pd da rifondare
Chiuse le urne parte la chiamata al popolo. L’inizio è molto acceso. De Magistris-Zapata vuole fare di Napoli «un soggetto politico di liberazione contro il sistema politico oppressivo, mafioso e liberista». Ma, aggiunge il sindaco, «di questo movimento parlerò dal 20 giugno». Fino al ballottaggio proverà a conquistare i voti degli astenuti – a Napoli un cittadino su due – degli elettori del Pd e dei Cinque Stelle. Può darsi che, per convincere gli indecisi, il vincitore del primo turno usi toni più morbidi. Tuttavia se de Magistris avrà la meglio su Gianni Lettieri del centrodestra, circostanza allo stato molto probabile, la “rivoluzione della bandana” entrerà nell’ultimo, più avanzato, stadio. Il sindaco smentisce la candidatura alla guida di palazzo Chigi nel 2018, ma due anni sono un tempo lungo e tutto può accadere. Lui scorge davanti a sé l’agognato mare aperto della politica nazionale e non vede l’ora di tuffarcisi. Ha già provato con Ingroia e gli è andata male. Ritenterà, ha legittime ambizioni di leadership della sinistra. Intanto assapora la vittoria al primo turno.
Forse in cuor suo il sindaco ringrazia Matteo Renzi per avergli dato una insperata, ancora maggiore visibilità. Uno degli aspetti di queste elezioni cittadine è: ha fatto bene il presidente del Consiglio ad impegnarsi in prima persona nella campagna elettorale a Napoli, fin quasi a sembrare lui stesso il candidato al posto di Valeria Valente? Lo scontro diretto con de Magistris non ha dato una maggiore visibilità a quest’ultimo, elevandolo al grado di avversario diretto del premier e galvanizzando così il suo elettorato più radicale? Il mantello iperprotettivo di Renzi e dei ministri giunti a Napoli in gran numero, non ha oscurato il profilo già poco distinguibile della Valente?
È possibile che il capo del governo si sia sovraesposto, sbagliando. È sembrata una sproporzione di forze: mezzo esecutivo romano contro il paladino di una città in crisi. La retorica di «Davide contro Golia» e dei «poteri forti» a quel punto era inevitabile ed ha avuto facile presa su ampie fasce di cittadini scontenti. L’impegno per Bagnoli è molto positivo, ma non doveva diventare terreno di scontro elettorale, assecondando la strategia conflittuale del sindaco.
L’interrogativo è: al punto in cui erano giunte le cose, Renzi poteva agire altrimenti? No, non poteva, perché l’errore era già stato commesso a monte, nella scelta tardiva della candidata e ancor prima, nei cinque anni precedenti di finta opposizione del Pd all’amministrazione comunale. L’alternativa ad Antonio Bassolino andava costruita molto prima che questi scendesse in campo, coinvolgendolo nella discussione per individuare la personalità migliore da candidare al Comune.
Bassolino non era la soluzione, così come non lo era la Valente. Occorreva uno sguardo nuovo per disancorare il Pd dalle secche dell’eterno scontro intestino. Ma un partito che non riesce a trovare neppure un nome per governare la terza città d’Italia può ancora dirsi partito? Si può andare avanti tappando le falle, lasciando ad altri le battaglie sui diritti e l’impegno sulle grandi questioni urbane?
L’alleanza con “Ala” di Denis Verdini si è rivelata indigesta per gli elettori progressisti. Ha dirottato il voto democratico parte nell’astensione, parte verso lo stesso de Magistris. Una metropoli come Napoli non può essere messa in agenda negli ultimi mesi utili prima del voto. Merita una discussione aperta e lenta, un grande lavoro di ascolto. C’era tutto il tempo per farlo.
La Valente ha affrontato dunque una triplice corrente contraria – scarsa visibilità politica, l’opposizione di Bassolino, l’alleanza con Verdini – e a Renzi non è rimasta altra scelta che affiancarsi a lei in campagna elettorale. Forse le ha permesso di guadagnare qualche punto, da sola la Valente avrebbe perso ancora di più. Ma la sconfitta, in virtù dell’impegno diretto e quasi obbligato del premier, si è riverberata anche su di lui. Una leadership, per quanto carismatica, non può sostituire l’assenza di lavoro politico.
Adesso il segretario provinciale Venanzio Carpentieri sarà sostituito da un commissario, ha commesso molti errori. Tuttavia è l’intero gruppo dirigente napoletano, parlamentari compresi, che non si è rivelato all’altezza della sfida. Neppure Super Matteo ha potuto coprire un simile rovina.
I Democratici napoletani sono stati spazzati via dal voto e ora il partito dovrà essere rifondato. Idee nuove, volti nuovi, ma davvero. Il primo banco di prova sarà il ballottaggio. Lettieri, mantenendo una cauta distanza da Forza Italia e ribadendo spesso la sua amicizia con Renzi, ha tenuto un profilo civico e in queste due settimane decisive lo accentuerà, guardando all’elettorato democratico. Lo stesso che, nel 2011, confluì su de Magistris determinandone la vittoria proprio su Lettieri. Anche il sindaco si rivolgerà ai delusi del Pd, oltre che ai Cinque Stelle, l’area politica più vicina alla sua, in parte già risucchiata grazie alla debolezza della candidatura di Matteo Brambilla. Sono tattiche politiche. Comprensibili, necessarie in questa fase, ma pur sempre tattiche. Non è di questo che la città ha bisogno.
Napoli chiede un sindaco che parli con ragionevolezza a tutti, senza guardare all’appartenenza, e affronti problemi veri salvaguardando l’interesse generale. Il ballottaggio è una partita completamente diversa dal primo turno, per quanto netti appaiano i risultati di partenza. Nulla è scritto. Chi combatterà una battaglia personale, chiunque sia tra de Magistris e Lettieri, non farà gli interessi della città. E con questo metro andrà giudicato. Mezza Napoli non ha votato e non si può consentire che la soglia del rifiuto cresca ancora.
vivicentro.it/sud/opinione – repubblica/Tutti gli errori del Pd da rifondare OTTAVIO RAGONE
Comunali, Napoli: l’errore del voto di scambio e gli zapatisti in salsa campana
L’analisi. Ora il premier deve indicare i punti decisivi per cambiare il territorio e per selezionare una vera classe dirigente
Napoli. Il Pd che a Napoli non arriva al ballottaggio è un sintomo, certo, ma di un malessere ancora più grande, che non si può confinare soltanto qui. Intanto non è vero che altrove se la passi meglio: basta guardare la mappa del voto in Italia – da Torino a Milano fino a Roma. Lo specifico del Sud, però, è indicativo: perché dove ha vinto il Pd non lo ha fatto muovendo l’opinione ma legandosi alle clientele – manovrando pacchetti di voti. E allora che cosa è successo? Che Renzi e il governo, al Sud, hanno sbagliato tutto: ignorando e rubricando gli allarmi suonati in questi anni.
Durante le primarie, il Pd si era mostrato assolutamente incapace di capire il voto di scambio. Ha poi peggiorato la propria posizione presentandosi con Ala. Cioè alleandosi – con tanto di Verdini presente in campagna elettorale – alla peggiore formazione politica del territorio. Flirtando con ambienti ambigui, eredi del cascame berlusconiano, che peraltro in termini di consenso hanno fatto perdere più di quanto hanno apportato. Anche questa alleanza è sintomo della noncuranza del presidente per il Mezzogiorno d’Italia: Ala è utile a Roma e sull’altare di questa alleanza strategica si può ben sacrificare la terza città d’Italia.
Perché allora Renzi, a Napoli, non ha deciso di rinnovare il Pd? Si è invece nascosto dietro dichiarazioni di massima e promesse fragilissime. Pensando di recuperare il tempo perduto e gli sbagli fatti intensificando negli ultimi tempi la sua presenza: l’ennesima scorciatoia, l’ultimo tentativo di risolvere con un eccesso di immagine i deficit strutturali della sua segreteria, tanti pezzi di un puzzle da dare in pasto ai media ma che rispecchiano una realtà irrimediabilmente frammentata.
Ma non si tratta solo di questo: perché il voto meridionale è anche una ulteriore conferma della furbizia tattica (non strategica) di Matteo Renzi. In fondo – l’hanno già osservato in molti – sembra quasi che il premier volesse perdere. Voleva perdere perché non aveva altro modo di commissariare – come ha annunciato di voler fare solo ieri – il suo Pd. Il problema della impresentabilità non è nuovo: pensiamo alla vicenda di Stefano Graziano, il segretario regionale del Pd coinvolto in una inchiesta dell’antimafia che ipotizza suoi legami diretti con un soggetto ritenuto organico ai clan. E perché allora Renzi arriva a commissariare in tutta fretta soltanto ora? Perché non lo ha fatto quando la campagna elettorale è cominciata con la pantomima delle primarie che pochi volevano e hanno poi condotto a una frattura interna insanabile?
Lo fa adesso perché, come segretario del partito, implicitamente rompe le righe prima del ballottaggio. Se questo Pd finirà per sostenere Lettieri, in fondo la responsabilità non sarà amputabile a Renzi: il voto tracimerà “naturalmente” verso il centrodestra e per nascondere il flusso si dirà che ormai si tratta di un emorragia di truppe. Saranno i capibastone, i traffichini dei voti comprati a poco prezzo a muoversi liberamente nella prateria aperta dal ballottaggio, ognuno provando a vendere il capitale accumulato al primo turno: pacchetti di preferenze neanche lontanamente sfiorati da quel voto di opinione che il Pd ha in tutti i modi, e coscientemente, scoraggiato. Così oggi Renzi commissaria il partito perché teme che Napoli e il Mezzogiorno possano diventare un serbatoio immenso di resistenza alla sua riforma costituzionale: sa bene che gente come de Magistris e Emiliano si sente ormai stretta nei propri avamposti.
Purtroppo per il Pd, la noncuranza del segretario nei confronti di questioni cruciali ha finito per presentargli il conto. Non regge più, alla prova delle urne, neanche lo spauracchio agitato nel corso degli ultimi due anni: se vai contro Renzi, se vai contro questo governo e questo Pd, dai spazio al populismo. È esattamente il contrario. Per come si sono messe le cose oggi, sono stati proprio il comportamento di Renzi e del suo governo a spianare la strada al populismo. Cosa pensava di ottenere il segretario del Pd candidando a Napoli una delle figure più incolori del centrosinistra finito ingloriosamente cinque anni fa? Valeria Valente ha accettato questa corsa a perdere in cambio della ricandidatura alle prossime politiche: altre ragioni non ci sono. Ma il segretario del Pd cosa pensava di ottenere? E cosa pensava di ottenere quando ha costretto la periferia ad ingoiare l’amaro boccone della alleanza con Ala? Sono questi gli errori che hanno aperto la strada al populismo.
De Magistris è adesso pronto a vincere un nuovo ballottaggio catalizzando forze che vanno dall’ex rettore democristiano dell’Università di Salerno, Raimondo Pasquino, alle avanguardie di Hamas a Napoli – sembra incredibile, ma un tema centrale della campagna elettorale napoletana è stata la questione israelo-palestinese. Forze che sembrano già pronte ad andare ciascuna per la propria strada non appena il sindaco, se rieletto, si concentrerà nella campagna elettorale per il no al referendum di ottobre. Il vero paradosso di questi anni è che de Magistris, quando subì la sospensione causa legge Severino, era in crisi piena di consenso: aveva perso per strada tutte le personalità autorevoli che aveva voluto nella sua prima giunta e le promesse mancate già cominciavano a pesare. Quel meccanismo imperfetto però ha finito per costituire la sua più grande fortuna. Gli ha indicato la strada a disposizione di ogni politico spregiudicato dei nostri giorni: essere al governo e all’opposizione allo stesso tempo. De Magistris ha così costruito la sua campagna elettorale praticamente contro se stesso: il sindaco rivoluzionario contro i poteri di lunga data – come a governare fino a ieri non fosse invece stato lui. Tutto ciò che di buono poteva attribuirsi – l’incremento del turismo – lo ha ascritto a sé. Tutto ciò che era opaco lo ha riferito a Roma. Nel suo comizio ha addirittura utilizzato l’immaginario preunitario: “Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro”. A tutti è sembrata un’ingenuità. Invece de Magistris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica. Tra gli elettori, anche quelli più disincantati, è passato con una efficacia formidabile un unico messaggio: “Non ruba”.
De Magistris non aspettava altro e ha meticolosamente programmato una campagna elettorale furba, populista, culmine di una prima sindacatura chiusa con una enorme quantità di deleghe personalmente detenute dal Sindaco, che davvero così delinea una situazione di stampo venezuelano. Per non parlare del consenso che gli arriva dalle associazioni: a Napoli c’è una tale miseria nel terzo settore che tanti, pur di avere un po’ di prebende, cercano di avvicinarsi al sindaco “in fondo onesto, il sindaco che giurà che governerà dalla strada, che realizzerà lo zapatismo in salsa napoletana: la sua “rivoluzione bolivarista””. Programma che genera inquietudine, ma anche tenerezza, nei giorni in cui il Venezuela degli ultimi bolivaristi affronta una delle crisi più severe della sua storia.
Eppure è così che de Magistris ha vinto al primo turno: doppiando gli avversari. E ha vinto a mani basse di fronte al suo avversario vero. E cioè quel Renzi terrorizzato dall’immischiarsi in vicende criminali e complesse, quel Renzi che ha relegato la rinascita politica del territorio alla sola battaglia morale – peraltro persa, poiché molto di facciata: il Pd a Caserta ha stravinto al primo turno ma guardate chi lo rappresenta.
Eppure i segnali, per il segretario democratico, erano arrivati da più parti. Gli erano stati più volte esposti gli errori madornali commessi dal Pd al Sud. Gli era stato spiegato come una classe dirigente incolta e inadatta rischiasse di far implodere il partito. Niente. Quando la lotta alla corruzione diventa una religione ecco che si sta apparecchiando la soluzione migliore perché tutto rimanga così come è.
E adesso? Lo confesso. Io non so darmi una risposta: non so che cosa si possa fare concretamente. Certo: sbandierare ideali da battaglia farebbe finalmente accorrere giovani, e meno giovani, risvegliando passioni sopite e grandi progetti. Ma non è questa la strada. Bisogna porsi domande autentiche perché alle domande autentiche non si può che rispondere con la verità. Bisogna iniziare a essere umili: realizzare che bisogna ripartire piano, un passo alla volta, con progetti concreti piuttosto che con grandi propagande. Senza grancassa. Non cedere a chi sostiene che raccontare le contraddizioni significhi diffamare. Bisogna ricostruire. Bisogna convogliare il meglio del Paese e non continuare a dividere il mondo tra “i propri uomini” e tutti gli altri.
Sì, il Sud è al collasso, tranne piccole felici eccezioni. È inutile fingere di non vedere. Il suo collasso si vede nella rabbia rivolta verso chiunque abbia un po’ di visibilità. Ecco perché Renzi dovrebbe fare mea culpa sugli errori che sta commettendo al Sud. Basta con la politica dell’apparire: senza una trasformazione reale la bolla della “narrazione” tanto cara al premier finirà per scoppiare. E non ci si può nascondere dietro un dito sostenendo che il cambiamento è rallentato da tempi troppo lunghi.
Il segretario del Pd dica ai napoletani che adesso non si può votare per Lettieri. Dica che è stato un errore allearsi con Ala. Prenda posizione. Sappia indicare pochi e decisivi punti su cui cambiare il territorio. A cominciare dai criteri per la selezione di una vera classe dirigente e lasciando perdere le mogli, i figli e i fratelli di chi ha fallito. Lo faccia – e lo faccia presto. Sì, fate presto: se potete
vivicentro.it/sud/opinioni – repubblica/Comunali, Napoli: l’errore del voto di scambio e gli zapatisti in salsa campana ROBERTO SAVIANO
Alla ricerca del Pd perduto
Al partito serve l’anima, non l’uomo solo al comando. È andato a votare per il Pd il corpo stanco del partito, mobilitando ciò che resta dell’apparato e i gruppi d’interesse intorno ai candidati
IL BUON VECCHIO “che fare?” dopo aver perseguitato la sinistra da più di cent’anni oggi dovrebbe modestamente essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul tavolo del presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è anche il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito italiano. Dire “non siamo soddisfatti del risultato” (usando per la sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta al singolare) non basta più. Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi città al voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a Napoli è addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai grillini che lo insidiano persino a Torino, mentre nella vera capitale politica del voto – Milano, dove si giocava l’esperimento renziano più ardito – la destra resuscita miracolosamente appaiando al primo turno il candidato cui è stata affidata l’eredità vincente di Pisapia cambiando base sociale, profilo culturale, paesaggio politico.
Ripetiamo oggi le cose che scriviamo da mesi: il corpo stanco del partito è andato a votare, mobilitando ciò che resta dell’apparato, i gruppi d’interesse che si muovono attorno ai candidati e quello strato di pubblica opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana, seguendola nelle sue varie trasformazioni, per un senso di appartenenza a una storia più che alla cronaca attuale e per una testimonianza di valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e occidentale così come la conosciamo. Ma l’anima, come dicevamo il giorno dopo il flop delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile ritrovarla dopo averla smarrita per noncuranza. Come se un partito fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse di performance invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee invece che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece che come promessa ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese.
Non è certo un deficit di leadership quello che oggi pesa sul risultato elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente ovunque, soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima persona e dà ogni volta l’impressione di giocarsi l’intera posta sulle questioni che deve affrontare per cambiare un Paese bloccato da cautele democristiane per troppi anni, e ancor più irrigidito dalla ruggine di una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit, evidentissimo e da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd per controllare la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando l’impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver l’ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti, persino in questi anni liquidi, chiedono in primo luogo di essere rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei guanti.
Il problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle generazioni che passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica è un soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse, fuse in una tradizione comune che tocca legittimamente al leader impersonare secondo la sua cultura, il suo carattere e la sua personalità. Tutto questo cozza contro l’aspirazione di Renzi a presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di “papa straniero” della sinistra italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori, tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del nuovo potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e delle loro storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente contro i tuoi compagni) potesse diventare il vero emblema della sinistra e l’avvento di un leader non fosse l’inizio di una delle tante stagioni politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno Zero.
La domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di far parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un patrimonio di testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre storie politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto, aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui? Questo è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di potere e d’interesse, e distingue la leadership dal comando. Una forza come il Pd non si può amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a funzioni da staff. Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi del Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di libera progettazione, per aiutare il governo e soprattutto se stesso, parlando al Paese. E’ difficile capire, al contrario, perché un politico ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito, rinunciando a rappresentare l’intero universo del Pd, che unito potrebbe essere ancora – forse – la spina dorsale del sistema politico e istituzionale italiano. C’è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei suoi uomini piuttosto che il migliore d’Italia. Con un misto di localismo e velleitarismo che può portare all’imprevedibile, come quando il renziano Nardella proclama “la morte della socialdemocrazia”: che ha tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia.
Questi limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani, dall’ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha un’alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta un contributo d’idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i soggetti – il leader, la minoranza – si muovono come se non avessero più un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese, socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a un’identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo riformismo, cioè sinistra di governo.
E qui siamo alla questione finale. Il grande tema che potremmo intitolare “quale sinistra per il nuovo secolo” interessa a Renzi? Se si assume quell’identità, sia pure nella sua interpretazione più radicale e personale, bisogna sapere che questo comporta degli obblighi. L’obbligo di spiegare ad esempio che il cosiddetto “partito della nazione” non è non può essere un “partito della sostituzione”, che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma mantenendo ben salde ed evidenti le sue radici porta le fronde del suo albero a coprire anche il centro. L’obbligo di chiarire lo scambio oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento sulla riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in pubblico. L’obbligo di tener conto della storia del sindacato italiano a tutela dei diritti nati dal lavoro, che la crisi sta riducendo a semplici “spettanze” comprimibili nei momenti di difficoltà. L’obbligo di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano abitualmente con la sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la minoranza del Pd con il garbo che si riserva di solito a Berlusconi, senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e della sua avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto.
C’è un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del lepenismo padano di Salvini o dell’antipolitica grillina (che stanno già preparando le “nozze del caos” per il secondo turno). Perché con il disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni ipotesi centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il compito di difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento repubblicano al risentimento che divora ogni giorno la politica. Si può fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?
vivicentro.it/editoriale – repubblica/Alla ricerca del Pd perduto: al partito serve l’anima, non l’uomo solo al comando EZIO MAURO
Usa 2016, Hillary vince la nomination tra i democratici.
Hillary Clinton sarà la prima donna a correre per la Casa Bianca: “Momento storico”
Ha raggiunto il numero di delegati e superdelegati. Pressing di Obama su Sanders per il ritiro
HILLARY Clinton ha vinto la nomination democratica. E’ un evento storico: la prima donna che diventa candidata alla Casa Bianca dalla nascita della democrazia americana. E Barack Obama interviene di persona su Bernie Sanders: è ora che ti fai da parte, nell’interesse dei democratici e dell’intero paese. La notizia della vittoria viene lanciata dall’Associated Press alle 22.20 di Washington, poi confermata dalla Cnn mezz’ora dopo. L’ultimo conteggio dei delegati, dopo avere incluso le piccole primarie del weekend (Portorico e Isole Vergini) con l’aggiunta dei superdelegati, dà questo verdetto: Hillary ha superato la fatidica soglia della maggioranza assoluta, i 2.383 delegati necessari perché la convention democratica di luglio a Philadelphia la “incoroni” come candidata alla Casa Bianca.
Ma fino all’ultimo la grande festa di Hillary è turbata da Bernie Sanders. Il senatore del Vermont, che si autodefinisce socialista e non è mai stato iscritto al partito democratico, ha con i suoi “nuovi” compagni di strada un rapporto difficile. Le sue accuse contro Hillary la mettono quasi sullo stesso piano di Donald Trump: da ultimo, la polemica sui fondi esteri affluiti alla fondazione filantropica dei Clinton, riecheggiano le bordate di Trump contro “crooked Hillary” (disonesta). Sanders ha ripetuto per mesi che anche il sistema delle primarie è “rigged” cioè truccato contro di lui. Ce l’ha in particolare coi superdelegati, quelli che non vengono eletti dalla base degli elettori bensì sono parlamentari e governatori, quindi parte dell’establishment. In realtà il vantaggio di Hillary è incolmabile anche a prescindere dai superdelegati. Lei batte Sanders su tutti i fronti: ivi compreso nel numero assoluto di voti espressi dalla base, senza superdelegati.
Sanders fino all’ultimo resiste. Oggi si vota in un altro Supermartedì, l’ultimo, con un maxi-Stato come la California che assegna più di 500 delegati; altro bacino importante di voti è il New Jersey. Si credeva che questo martedì sarebbe stato decisivo per consentire a Hillary di superare la soglia dei 2.383 delegati. In realtà è già accaduto prima, come confermato nel conteggio finale dell’Associated Press. Di qui la scesa in campo del presidente, che a tutti gli effetti è il vero leader del partito. Obama ha avuto una lunga conversazione telefonica con Sanders domenica, rivela la Casa Bianca: mezz’ora di “moral susasion”, pressione morale ai fianchi del 74enne senatore del Vermont. Per Obama è essenziale mettere fine alla diatriba lacerante, fare l’unità del partito, per concentrare tutte le energie sulla sfida finale contro Trump che si sta rivelando molto più rischiosa del previsto. Obama potrebbe annunciare il suo “endorsement” alla Clinton in settimana. Tra i due c’è un patto di ferro che risale all’epoca in cui Hillary venne sconfitta nelle primarie del 2008 ma poi accettò lealmente di lavorare per il vincitore, nel ruolo di segretario di Stato.
Obama vuole fare al più presto l’unità del partito anche per recuperare i voti dei giovani che hanno plebiscitato Sanders durante le primarie, e che saranno essenziali a novembre contro Trump. Per il presidente in carica la sfida diventa personale. Trump lo calunniò nel 2012 cavalcando la falsa leggenda sulla sua nascita in Kenya che lo avrebbe reso ineleggibile. E in questa elezione Obama si gioca il suo lascito storico: la vittoria di Trump diventerebbe anche un verdetto negativo sulla sua presidenza.
vivicentro.it/politica – larepubblica/Usa 2016, Hillary vince la nomination tra i democratici. Sarà la prima donna a correre per la Casa Bianca: “Momento storico” FEDERICO RAMPINI
La democrazia anomala dei frammenti
Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79.
E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.
Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.
Al momento la svolta – se di svolta si può parlare – non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.
A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali – diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo – lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.
La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia – a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile – s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.
vivicentro.it/editoriale – lastampa/La democrazia anomala dei frammenti MARCELLO SORGI




