La nuova rotta dei migranti, per confondersi con i turisti, parte dalla Turchia al sud d’Italia con yacht e barche a vela.
Per Giampiero Massolo la questione della tratta «non sarà volta a nostro danno», ma può essere utile a «superare quel senso un po’ inconfessato di lesa maestà quando altri si occupano della crisi libica, ricordandoci che non ne siamo gli unici titolari».
Su Tripoli una gara pericolosa
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a richiesta francese di riportare urgentemente all’attenzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu la questione della tratta degli esseri umani e delle condizioni dei migranti nei centri di accoglienza libici non sarà volta a nostro danno, ma merita comunque qualche riflessione.
Per l’Italia, che il Consiglio proprio in questo mese presiede, si tratta anzitutto di superare quel senso un po’ inconfessato di lesa maestà quando altri si occupano della crisi libica, ricordandoci che non ne siamo gli unici titolari. Di vincere poi il sospetto di un tentativo un po’ capzioso di far giudicare a livello internazionale le nostre politiche di contenimento dei flussi migratori, basate anche sulla gestione delle persone in loco e sugli accordi con le Ong (che guarda caso la sola Médecins sans frontières non ha tuttora sottoscritto). Di non cedere infine alla tentazione di ipotizzare ad ogni passo l’intento di disfare gli accordi a guida Onu di Skirath (l’accordo sulla transizione in Libia), in esaurimento il 17 dicembre, magari con l’intento di togliere legittimità giuridica al premier al Serraj, a tutto vantaggio del generale Haftar e degli interessi altrui in Cirenaica.
Sul lato positivo, infatti, va pur rilevato come la nostra gestione del dossier libico in Consiglio di Sicurezza sia stata particolarmente attenta, culminando solo pochi giorni fa su iniziativa italiana in un apprezzato dibattito aperto, con anche la membership africana, sui temi della schiavitù e dei flussi di persone e dunque inevitabilmente sulla situazione in Libia. Il passo di Parigi appare su un simile sfondo quantomeno intempestivo e senza la prospettiva di poter molto aggiungere a quanto già discusso. Né può sottacersi come siano state proprio le nostre attività e contatti in Libia e con i Paesi di transito, come con quelli di origine non solo a frenare i flussi e a ridurre i numeri dei migranti, ma a consentire altresì alle organizzazioni internazionali, dall’Unhcr all’Oim, di tornare ad operare sul terreno; con ciò, cercando di incidere più efficacemente su realtà che sono peraltro risaputamente drammatiche e insostenibili non certo da oggi. Sono dati di fatto, che giova ricordare. Come quello del ridursi dei dispersi in mare.
Banalizzare tuttavia quanto accade – al Palazzo di Vetro, anche per bocca di importanti responsabili delle agenzie dei diritti umani, come su importanti organi di stampa internazionali, assai attenti specie alla nostra gestione dei migranti – sarebbe fuorviante.
La Libia resta uno scacchiere importante delle relazioni internazionali. Come possibile piattaforma di infiltrazioni terroristiche, a maggior ragione dopo la sconfitta delle ambizioni territoriali di Isis e la conseguente diaspora dei foreign fighters; come retroterra per chiunque coltivi sogni di destabilizzazione dei Paesi arabi limitrofi e di quelli del Sahel; come laboratorio delle prospettive future di un Islam politico che conserva sullo scenario libico non poche potenzialità; come terra di conquista di concessioni energetiche assai ambite da molti nostri partner anche europei. L’aspetto umanitario invocato dai francesi parla a tutte le coscienze, ma potrebbe non esaurire tutte le motivazioni. Ce n’è abbastanza per scatenare logiche di potere e tentativi di influenza, perseguiti con mezzi anche diversi dagli auspici e mediazioni della diplomazia. Non deve stupire che ci si possa e ci si debba attrezzare, a difesa dei nostri interessi nazionali, con strumenti idonei a tutelarci.
Certo, una coerenza con i nostri principi e con la nostra linea politica va salvaguardata. In questo, gli accordi di Skirath e il quadro di legittimità internazionale che ne è scaturito non possono essere liquidati come nulla fosse. Una cornice internazionale è necessaria e ci salvaguarda. A condizione, tuttavia, di prendere realisticamente atto dei suoi limiti – l’Onu da sola non basta – e di essere pronti a adattarla e sostenerla con iniziative prese anzitutto al nostro livello nazionale che coinvolgano chiunque conti sul territorio e, malgrado le evidenti difficoltà, chiunque soffi sul fuoco dall’esterno.
Solo dando la percezione di un disegno italiano compiuto e deciso per la Libia potremo dare man forte all’Onu e scoraggiare gli altri partner da fughe in avanti non certo utili a stabilizzare la situazione libica.
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