La Catalogna avvia il percorso per l’indipendenza dalla Spagna ma la dichiarazione è sospesa perché il presidente Carles Puigdemont sceglie di tentare il dialogo. “Un popolo – ha detto – non può essere costretto ad accettare uno status quo che non vuole: con i risultati del referendum la Catalogna ha guadagnato il diritto a essere indipendente e ascoltata”. La risposta di Madrid arriverà oggi dal premier Rajoy, ma l’idea che prevale nel governo è che le parole di Puigdemont valgono come dichiarazione di secessione.
I
n piazza a Barcellona si vive però una festa mancata perché il discorso e la ricerca del dialogo appaiono a molti come dei cedimenti.
La festa mancata di Barcellona: “Ci hanno tradito, lotteremo”
Fra la folla all’Arco di Trionfo che attendeva la proclamazione: «Siamo troppo diversi dalla Spagna, non ci verranno mai incontro»
BARCELLONA – Questa è la cronaca di una festa mancata. L’enorme piazza dell’Arco di Trionfo, ieri sera, era stracolma di gente. In piedi, nella calca, c’era anche la signora Maria Calvo, 77 anni, un’infermiera in pensione. Pregava, piangeva e si scusava con i vicini: «Sono troppo emozionata». Assieme a decine di migliaia di persone, avrebbe voluto urlare di gioia di fronte alla cosiddetta «Dui», la dichiarazione unilaterale di indipendenza. Ma il leader degli indipendentisti catalani Carles Puigdemont, che riferiva in Parlamento e arrivava in piazza su due giganteschi maxi schermi, alla fine quella frase netta non l’ha pronunciata. Anzi, alle 19,42 ha detto: «Chiedo all’assemblea di votare una mozione per sospendere la dichiarazione di indipendenza per dare tempo al dialogo». La signora Calvo si è messa a piangere, ma di sconforto: «Non è ancora il momento». Altri hanno urlato: «Traditore!». La cosa più impressionate è stata un silenzio strano, rimasto ad aleggiare nell’aria per alcuni secondi, come il contraccolpo di un gigantesco boato strozzato in gola.
«Quindi non l’ha detto?», domandava un signore con la barba bianca in cerca di conferme. «No, non l’ha detto», hanno assicurato due ragazzini vicini a lui. Volevano la secessione. Volevano festeggiare la nascita della Repubblica della Catalogna. Erano convinti che martedì 10 ottobre 2017 sarebbe stato il giorno giusto. «Invece percorreremo ancora la strada pacifica del dialogo» diceva la signora Calvo, infilandosi nel fiume di persone deluse che si allontanavano dalla piazza. «Speriamo che la Spagna sappia capire».
Quello che c’è da capire è che tutta questa gente tornerà a chiedere l’indipendenza molto presto. «Non finisce qui» diceva Maria Salut Gil, di mestiere commercialista. «Sono triste, ma cercheremo di arrivare comunque al nostro obiettivo. Ha ragione Puigdemont a cercare una mediazione. A me piacerebbe che ci venisse data la possibilità di fare un referendum riconosciuto ufficialmente. Quello che chiediamo da anni. Perché questa è la storia di un popolo, non è politica. È una storia fatta dalla gente, giorno dopo giorno, una storia di democrazia».
Hanno retorica, spillette, canti, cori, una lingua con un’inflessione unica al mondo, un’identità e un senso di appartenenza che negare sarebbe l’errore peggiore. Hanno un gesto della mano, alzata con quattro dita tese e il pollice ripiegato dietro, che simboleggia lo sfregio che venne fatto alla loro bandiera. Ma, soprattutto, hanno la convinzione di essere nel giusto. E non è un caso che uno dei passaggi più apprezzati nel discorso di Puigdemont sia stato questo: «Sono consapevole della narrativa che si è installata sui media. Ma noi non siamo delinquenti, pazzi, golpisti. Siamo gente normale che vuole votare e ha tentato di farlo con legalità». Poco prima del suo discorso, per la verità, c’erano stati anche dei fischi per il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che in un appello aveva chiesto proprio di non «prendere decisioni che renderebbero impossibile il dialogo».
Così è stato. Forse. Non tutti in piazza erano contro Puigdemont. Ha preso un’ovazione, ad esempio, quando ha ricordato il giorno del referendum: «Le violenze estreme della polizia di Madrid, senza precedenti in Europa, non hanno impedito il voto. E le immagini dei feriti rimarranno per sempre. Ci sono persone preoccupate, colte dallo sgomento di ciò che è accaduto e che potrebbe accadere». Ma il sentimento prevalente era la delusione. Uno dei più arrabbiati sembrava un ragazzo di 19 anni, di nome Alex Compte, in piedi sulle transenne con il pugno alzato proteso verso il mega schermo. «Stai sbagliando tutto!», urlava. «Sogno l’indipendenza dal 2010. Ho partecipato a tutte le manifestazioni, la mia famiglia è unita e determinata». Indossava una maglietta rossa con sopra scritto «Votare Sì significa prendere parte». Ovviamente ha votato «Sì», e anche lui si aspettava quella frase netta. Lo strappo. La proclamazione. «Era giusto farlo. Siamo troppo diversi dalla Spagna. Non ci verranno mai incontro, non ci capiranno mai». Era triste anche la volontaria Núria Murlà, una delle tante a indossare la pettorina dei «volontari dell’assemblea nazionale», una specie di servizio d’ordine catalano: «Ma l’indipendenza è solo rimandata».
Sono andati via con le bandiere sulle spalle, che ormai era quasi notte. Avevano portato tutto: birre catalane, spumante francese, musica tradizionale, popcorn e patatine. Avevano piazzato la loro iconografia al completo davanti alle telecamere di tutto il mondo. Doveva essere una festa, una specie di battesimo. «Ma Puigdemont ci ha traditi», ripeteva Alex Compte. Ecco cosa è successo, il figlio dei pasticcieri di Amer, l’ex sindaco di Girona, il giornalista con la passione dei Beatles, insomma lui, Carles Puigdemont, l’uomo che tutti aspettavano al varco, ha cercato di stare in equilibrio sul filo sottilissimo delle parole.
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