Per l’Istat in Italia ci sono 7,2 milioni di poveri che detto in altri termini vuol dire l’11,9% della popolazione in gravi difficoltà economiche o ancora che 11 famiglie su 100 sono vittime del disagio. A soffrire sono molti over 65 ma anche oltre 1 milione e 250 mila minorenni.
In Italia 7,2 milioni di poveri
Secondo l’Istat l’11,9 per cento della popolazione è in gravi difficoltà economiche. Nel 2016 in sofferenza l’11,1% degli over-65 e 1 milione e 250 mila minorenni
In Italia sono oltre 7,2 milioni le persone che vivono in famiglie in gravi difficoltà economiche. Un livello, dice l’Istat, pari all’11,9%, che nel 2016 è rimasto «sostanzialmente stabile» rispetto all’anno prima.
Ecco cosa fa la differenza: non potersi permettere spese impreviste di 800 euro, una settimana di vacanze, un pasto proteico ogni due giorni, l’acquisto di un’auto, un riscaldamento adeguato o avere arretrati per mutuo o bollette.
Gli over-65 registrano un peggioramento sul 2015: la percentuale di chi è in seria difficoltà passa dall’8,4% all’11,1%.I minorenni in situazioni problematiche sono 1 milione e 250 mila.
TORINO, PERSO IL LAVORO RESTA SOLO LA CARITAS
È stata Lucia ad avere il coraggio di andare a chiedere aiuto al Centro di ascolto della Caritas, in una delle periferie nuove, nate dove prima c’erano le fabbriche. Lucia, 43 anni, e il marito Giovanni, 40, abitano poco lontano con il figlio, al primo anno di università: vivono in un alloggio di due stanze e cucina di cui stanno pagando il mutuo. E questo è uno dei problemi.
La loro è una storia comune, alla Caritas torinese, dallo scoppio della crisi. «Gente che se la cavava bene, a cui, senza essere ricca, non mancava niente», dice il direttore Pierluigi Dovis. L’inizio della discesa nessuno riesce a immaginarlo. Colpe? Lavorare in due aziende dello stesso settore di indotto in crisi. «Lui è un tecnico, era responsabile di un reparto di produzione. Due anni fa ha cominciato a vedersi ridurre i giorni di lavoro “compensati” dalla cassa integrazione, finché è rimasto a casa: delocalizzazione. E lì sono incominciati i problemi in famiglia. Perché lei lavorava e lui no, e quindi sensi di colpa devastanti, impressione di essere inutile, mantenuto. La moglie lo ha sostenuto in tutti i modi», ricorda il direttore della Caritas. «Per mesi lo ha invitato ad avere fiducia. Poi è toccato a lei. L’impresa nella quale lavorava ha dovuto cedere un ramo d’azienda: in venti giorni è si ritrovata a casa. Con il sussidio di disoccupazione, certo. Ma il reddito della famiglia si era dimezzato».
È stato a quel punto che il figlio ha cercato di alleviare le preoccupazioni dei genitori cercandosi un lavoretto. «Lo ha trovato come operaio tuttofare in un’impresa edile, in nero, nel fine settimana. Così – spiega Dovis – è andata avanti per un paio di mesi, con qualche centinaio di euro di aiuto alla famiglia, finché un giorno il ragazzo è caduto da un’impalcatura. Di denunciare non se n’è parlato perché sono state subito minacce. Per fortuna recupererà completamente, ma è stato in ospedale a lungo e ora deve fare molta fisioterapia. Madre e padre sono caduti in depressione, ma non possono curarsi perché devono prima di tutto pensare al figlio. Che comunque, per ragioni economiche, non potrà continuare l’università». La ragione che ha spinto Lucia a superare la vergogna e a rivolgersi alla Caritas è stato il sollecito della banca dopo tre rate di mutuo non pagato. «Ma quando mi hanno incontrato – dice Dovis – la richiesta più accorata è stata un’altra: essere aiutati a non scoppiare come famiglia». Un rischio reale. L’aggravante della povertà.
VIGEVANO, ADDIO RICCHEZZA NELL’EX ELDORADO DELLE SCARPE
Negli Anni Sessanta c’erano 1000 aziende che producevano 30 milioni di scarpe l’anno. Oggi sono 15 e non arrivano a 800 addetti. Se la crisi morde, nel settore calzaturiero di Vigevano addirittura sbrana. «Nell’ultimo anno ho lasciato a casa 8 dipendenti. Siamo rimasti in 20. Non ci dormo la notte per capire come fare ad andare avanti», racconta Carlo Dal Monte, piccolo imprenditore del settore, in proprio da nemmeno 20 anni. I peggiori 20 anni di questo distretto dove solo nel 1962 Giorgio Bocca sul Giorno scriveva: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste».
Più di 50 anni dopo le prospettive sono cambiate di brutto. Prima sono arrivati i cinesi, bassi costi e bassa qualità. Poi ci si è messa la crisi, basso tutto. Secondo Banca Intesa il trend è negativo anche nelle esportazioni: -8,1% nel quarto trimestre, -4,3% su base annua. «Io non posso competere con i cinesi ma i grandi marchi per cui lavoriamo ci stanno strangolando. Negli ultimi 7 anni è aumentato tutto meno il costo di lavorazione. Sento tanto i politici parlare di made in Italy. Ma lo Stato che conosco io è quello che mi ha fatto versare 17 mila euro di contributi per i 20 dipendenti rimasti».
I sopravvissuti negli anni si sono dovuti riconvertire. Le linee con un proprio marchio sono quasi sparite. Si lavora per le grandi «griffe» che dettano legge. Anche chi sta meno peggio degli altri, perché ha saputo posizionarsi bene con i grandi marchi, non dorme sonni tranquilli. Massimo Martinoli guida l’azienda di famiglia che fa scarpe da 70 anni. Oggi ha 60 dipendenti, 20 anni fa erano 80: «Negli Anni 70 per andare avanti puntammo sulla eccellenza. Negli Anni 90 ci aprimmo ai grandi marchi del lusso. Oggi fanno fatica anche loro. Penso all’e-commerce ma sono sicuro che ci sarà una nuova trasformazione del settore». Gianni Ardemagni che segue il settore per la Cisl usa toni da funerale: «Vanno avanti solo le aziende più strutturate o un sottobosco di piccoli artigiani che lavorano conto terzi. Ma Vigevano da anni non è più un distretto vincente». Sarebbe bastato poco per tutelare il distretto. Da 15 anni i calzaturieri si battono per il riconoscimento del made in Italy a livello europeo. Massimo Martinoli assicura che è una battaglia soli contro tutti: «I Paesi del Nord che sono grandi importatori non lo vogliono. I nostri politici sono assenti».
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