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Home » L’Italia non si arrenda, i terremoti non sono una fatalità destinale

L’Italia non si arrenda, i terremoti non sono una fatalità destinale

di Redazione
25 Agosto 2016
in Cultura, Opinioni, Ultime Notizie
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FATALITA

Che fatalità c'è in crolli prevedibili per errata o inadatta costruzione? Nessuna! Solo dolo! (Stanislao Barretta)

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L’Italia è un Paese montuoso, ad altissimo rischio sismico I terremoti lo hanno sempre tartassato Questo, però, non significa che la devastazione portata dalla terra tremante sia una fatalità destinale. Adesso, la lotta che ci attende è il restauro di quegli antichi borghi perché resistano ai terremoti futuri.

Ora evitiamo le lacrime di facciata ANTONIO SCURATI

Nessuno pianga. Non una sola lacrima mediatica sia versata per Amatrice a favore di telecamere o di obiettivi fotografici.

E non mi riferisco, ovviamente, alle lacrime di strazio della novantasettenne Giulietta che tra le macerie, con il suo ultimo fiato, piange sull’apocalisse senza rimedio del suo piccolo mondo collinare o a quelle di qualsiasi altra vittima colpita nella fibra più intima del suo essere da questo strazio. Tutti costoro piangeranno, com’è naturale che sia. Spesso, purtroppo, non resterà loro altro che il pianto e a noi, prima ancora che di prestare loro aiuto e soccorso, toccherà, secondo umanità, di compiangerli, di abbracciarli nella nostra compassione. Piangano, dunque, le vittime. E noi con loro. Ma non gli attori mancati di un possibile copione alternativo a quello della fatale tragedia che non fu mai recitato. Sono le lacrime dei leader politici, degli amministratori con grandi responsabilità nazionali, dei «potenti» che avrebbero potuto fare e non hanno fatto – lacrime sempre più frequenti in questi nostri anni emozionabili e inetti – che non vorremmo più vedere sulla scena mediatica della disperazione altrui.

Il pianto plateale dell’uomo pubblico si è recentemente affermato come una delle significative novità del nostro tempo. Fino a pochi decenni or sono, sarebbe stato impensabile che un leader politico, religioso o sportivo, si sciogliesse in lacrime di fronte al suo seguito. Una tale manifestazione di emotività incontrollabile avrebbe quasi sicuramente segnato la sua fine. Se Winston Churchill, di fronte all’aggressione nazista, promettendo ai suoi connazionali la vittoria al prezzo di sangue, sudore e lacrime, avesse pianto mentre lo faceva, gli inglesi non lo avrebbero seguito e Hitler avrebbe probabilmente vinto la Seconda guerra mondiale. Oggi, al contrario, i vistosi segni di commozione sul volto degli uomini eminenti sono diventati una costante e, in talune circostanze, quasi un obbligo opportunistico. Li rendono più «umani», più vicini, osserverà qualcuno. Nel caso di drammi terribili come quelli del terremoto di Amatrice, vanno, invece rifiutati, stigmatizzati con fermezza. E non per la loro presunta insincerità, ma perché il pianto plateale del potenziale agente di un’azione collettiva che avrebbe potuto prevenire e scongiurare la tragedia riduce la collettività civile e politica a una audience di meri spettatori passivi e inetti. La facile e immediata possibilità di consumo mediatico della sofferenza patita da persone a noi estranee in occasione di guerre, calamità naturali o catastrofi storiche è forse la principale e più pericolosa novità della nostra epoca. Ogni volta che un leader politico, accorso sulla scena del disastro, invece di agire piange, l’epoca affonda in se stessa.

L’Italia è un Paese collinare, montuoso, ad altissimo rischio sismico. I terremoti lo hanno sempre tartassato e sempre lo tartasseranno. Questo, però, non significa che la devastazione portata dalla terra tremante sia una fatalità destinale. Lo sbriciolarsi di edifici privati e pubblici, in pietra o in cemento, sotto la sferza di scosse o alluvioni, non è il colpo del destino ma la colpa di case costruite senza criteri antisismici, di un patrimonio costruttivo vetusto e mal tenuto. I nostri avi, per secoli, hanno ricostruito città e paesi distrutti nel punto esatto in cui erano crollati. Quell’ostinazione era il loro modo di lottare contro il fato. La lotta che attende noi è il restauro di quegli antichi borghi perché resistano ai terremoti futuri.

Noi italiani moderni siamo figli del melodramma. Abbiamo Verdi come padre. Il genio di Busseto c’insegnò che nel pianto, nella lacrima di commozione, si distilla la verità della condizione umana. Ma ciò che nell’arte è sublime, nella vita è nevrosi o, peggio, colpevole inerzia. Risparmiamo, dunque, il pianto e prodighiamo ogni sforzo per rifondare il Paese, i paesi. Il terremoto siamo noi.

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