Le reazioni degli inglesi al divorzio con la UE

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 Il capo del Desk Esteri de La Stampa, Alberto Simoni, nel suo reportage racconta le reazioni degli inglesi al divorzio. Il Regno Unito vuole mantenere con l’Unione europea «una partnership profonda». Theresa May lo ha scritto sette volte nella lettera che ha dato il via ufficiale alla Brexit. Ma la strada per i negoziati è in salita: non c’è intesa sui tempi, i commerci e la difesa comune.
Secondo Charles A. Kupchan «l’Occidente sembra giunto a un punto critico. Il populismo potrebbe continuare a guadagnare forza. E qualunque sia l’esito, la Brexit è un minaccioso segnale di avvertimento».

Nei pub tra fischi e applausi: “Italiani, seguite il nostro esempio”

La premier britannica in diretta da Westminster: “Non torneremo indietro”. Non tutti però sono convinti: “Un disastro, dividersi è una cosa inutile”

LONDRA – Quando il premier Theresa May inizia a parlare alla Camera dei Comuni, nei pub lungo Whitehall scende un insolito silenzio.

I turisti affollano le strade, il naso all’insù in cerca del Big Ben, forse ignari che in quel momento, le 12,35 sul meridiano di Greenwich, la Storia si è messa in moto.

Nessuno sa dove andrà a parare. La premier britannica ha le idee chiare e vuole spiegarle ai sudditi di Sua Maestà dopo averle messe nero su bianco nella lettera inviata al «caro Donald Tusk». Ma anche a Bruxelles hanno le idee altrettanto chiare. E le due narrazioni, quella dei fuggitivi dalla Ue e quella dei custodi delle regole comunitarie, divergono. «Oggi è un giorno storico, indietro non si torna», esordisce May.

Al Red Lion fra hamburger, patatine e birre, gli occhi sono puntati sul televisore, c’è la diretta da Westminster. Dopo qualche minuto in cui scorrono i sottotitoli sullo schermo, la cameriera afferra il telecomando, toglie il «mute», e la voce ferma ma tutt’altro che calda della premier, irrompe. John, 68 anni, sta al bancone con una mezza pinta di birra. May ha appena detto che «Londra riprenderà il controllo dell’immigrazione», lui annuisce. È il motivo per cui ha votato Leave. Troppi stranieri, «soprattutto dall’Est Europa». Ripete gli slogan della campagna culminata 280 giorni fa nella clamorosa vittoria degli anti-Ue. È convinto che l’Europa avrà problemi nell’esportare prodotti nel Regno Unito. Si scorda che anche la rotta inversa non sarà agevole, basta chiedere ad agricoltori e pescatori. Nessuno gli farà mai cambiare idea, nemmeno l’apertura di Theresa May che batte il tasto del «trade» (ripete la parola 6 volte) e a ripetere che «vuole una profonda e speciale partnership» con gli europei.

 

La premier è arrivata alle 11 a Westminster dopo aver riunito alle 8 il governo. Camicia bianca e giacca blu, subisce qualche «buuu» dal banco dell’opposizione quando accenna ai valori «liberali e democratici» da condividere con la Ue. Il pub osserva, muto. Ma nessuno si aspetta lo scontro, il referendum è il passato, meglio guardare avanti. May ricorda che «il Regno Unito esce dalla Ue non dall’Europa». Al Red Lion gli occhi sono tutti per lei. Non che qualcuno aspetti chissà quale annuncio, in fondo il suo speech è una riedizione aggiornata di ciò che disse il 17 gennaio alla Lancaster House. Oggi è «solo» il Triggering Day, il giorno dell’Articolo 50. La premier smussa qualche spigolo, ammette che Londra deve uscire dal mercato unico perché non può fare cherry picking, scegliere quel che conviene e scartare i frutti aspri. Steve scuote la testa, ha una quarantina di anni, fa il funzionario in una società di consulenza e per lui quel che sta succedendo è semplicemente un «disastro». Per l’economia in primis ma anche perché «dividersi è semplicemente una cosa inutile». Ascolta e commenta, è un fiume in piena. Si sfoga con un vicino: «It’s a disaster», ripete ossessivamente. Keith, manager in pensione, 70 anni, almeno è ottimista. «Abbiamo bisogno noi della Ue e loro di noi, un accordo lo troveremo anche se sarà difficile, mica possono farci regali», esplode in una fragorosa risata.

A Parliament Squadre, fuori Westminster, c’è qualche nostalgico della protesta, due ragazzi con le bandiere europee e una piccola orchestrina che intona il leit motive che accompagnò oltre 100 anni fa l’ingloriosa attraversata del Titanic. Questa è la Brexit per loro, suonano il requiem della Nazione, altro che la «Global Britain» di Theresa May. Che spiega urbi et orbi che non chiuderà agli stranieri e che lavorerà per un buon accordo con la Ue anche per chi ha messo, da migrante, negli ultimi anni radici a Londra. Boris Johnson annuisce, due ore più tardi darà garanzie al nostro ministro Alfano sullo status degli italiani.

Un attivista dello Ukip, spilla ben in vista sul bavero, brinda felice. «Siamo liberi, indipendenti, perché anche voi italiani non ci seguite?», scherza ma non troppo. La May prova a tenere insieme il Regno Unito promettendo ai recalcitranti scozzesi e a gallesi e nordirlandesi che quando i poteri da Bruxelles torneranno a Westminster, «discuteremo quali cedere alle nazioni che compongono la Gran Bretagna». Il finale è un inno allo «stay together», all’unirsi nel periglioso e incerto cammino che però darà, promessa del premier, frutti e risultati ottimi. È il culmine, la telecamera stacca. C’è la replica di Jeremy Corbyn, il leader laburista. Ma cala il sipario anche al Red Lion, la Storia ha imboccato la sua strada. «Due birre», ordina John. In nome della Brexit.

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