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l patto tra la giunta e l’establishment capitolino non regge, racconta Iacopo Jacoboni su la Stampa e non basta. A poco più di due mesi dalle elezioni la squadra della sindaca M5S di Roma Virginia Raggi perde pezzi importanti: fuori il capo di gabinetto, l’assessore al Bilancio, i vertici dell’Atac (l’azienda del trasporto pubblico), e dell’Ama (rifiuti). Inoltre, sembra che non reggono neppure i patti interni al M5S. Mattia Feltri ripercorre settanta giorni di amministrazione Raggi passati tra topi, rifiuti e pressioni esterne.
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In crisi il patto con l’establishment. Perde lo schema-Di Maio, sale Di Battista
La guerra civile che è ormai diventato il Movimento cinque stelle a Roma – una guerra combattuta anche sulla pelle di Virginia Raggi, al netto di tutte le sue debolezze politiche – è a una svolta: non se ne vanno semplicemente tre persone, sta saltando tutto uno schema di gioco, diciamo così «istituzionale», che aveva cercato di utilizzare nel quadro della giunta Raggi una serie di grand commis o tecnici, non importa se transitati dalle gestioni Marino, o Tronca.
All’indomani della vittoria dei cinque stelle fu proprio Tronca a raccomandare alla Raggi di servirsi di alcune competenze che «sarebbero state disponibili a dare una mano a Roma, non per il Movimento, ma per aiutare la capitale a non affondare». Fece quattro nomi: Marco Rettighieri e Daniele Fortini, dg di Atac e presidente di Ama, Carla Raineri, un alto magistrato, e Marcello Minenna, un dirigente Consob molto bravo con numeri, finanza e conti. Risultato: i primi due – su cui Raggi si era esposta negativamente – furono messi in stand by, ci fu una frenata sul loro siluramento, che era stato variamente promesso; gli altri due sono diventati – tra mille fatiche che abbiamo documentato via via – capo di gabinetto e assessore chiave al bilancio.
Ora «sta cadendo quello schema per cui una parte degli apparati dello stato dice “ok, aiutiamo i cinque stelle a non combinare disastri”», ci dice una fonte di altissimo livello in tutta questa vicenda. Rettighieri ha appena lasciato, Fortini lasciò un mese fa, Raineri si è dimessa (ieri l’altro, poi ieri c’è stata la revoca formale, fatta dalla Raggi per autotutelarsi dopo il parere negativo dell’Anac). A proposito di Anac, anche Raffaele Cantone, e il prefetto Franco Gabrielli, si spesero con alcuni di questi grand commis per invitarli a continuare a lavorare per il bene di Roma anche nella stagione cinque stelle. Dire che molti di loro fossero assai dubbiosi è un eufemismo.
Il garante di tutto questo nel Movimento doveva essere Luigi Di Maio, ma è chiaro che il garante non è al momento in grado di garantire nessuno – neanche Minenna, che era arrivato alla giunta attraverso lui e, formalmente, attraverso una presentazione fatta da Carla Ruocco. Minenna ha confidato nei giorni scorsi: «Sono in tanti a volermi fare fuori nel M5S». Ma possiamo dire che il fallimento dello schema-grand commis è, automaticamente, una vittoria di un fronte avverso a Di Maio? Calma. Per quale motivo la revoca della Raineri si porta dietro le dimissioni del tandem Minenna-Solidoro, l’amministratore di Ama nominato venti giorni fa?
Se perde il fronte istituzionale, non si può dire che vinca un compatto, alternativo fronte barricadero, o del ritorno alle origini M5S. In realtà vincono faide, egoismi, arrivismi. Si son sfasciate anche le cordate. Minenna si è scontrato sempre più con varie figure in Campidoglio, a partire dalla sindaca, che non sopportava più né lui né la Raineri. La Raggi aveva promesso «azzeriamo i vertici Acea», Minenna trattava con Caltagirone per coinvolgere Acea nella gestione dei rifiuti, anche strategicamente. Minenna aveva scelto Alessandro Solidoro, persona competente, a capo della nuova Ama (Solidoro ha confidato: «Avevo accettato solo per Marcello, siamo amici da anni e me l’ha chiesto come un servizio, magari solo per quale mese»). Senonché, appena insediatisi lui e il dg Stefano Bina, si sono resi conto che Paola Muraro, la discussa assessora all’ambiente, spadroneggia e sta scrivendo il piano di ristrutturazione dell’azienda lei, al posto loro (ci torneremo in altra occasione). Tra l’altro, a Solidoro era stato detto dal M5S che Ama versava in stato fallimentare dal punto di vista tecnico: il che non è vero, perché i conti sono in ordine, e i problemi sono altri. Minenna è andato su tutte le furie per questo straripare della Muraro, lo scontro con l’assessora è stato aspro; e naturalmente anche Solidoro non ne poteva più; che le sue dimissioni seguano a ruota quelle dell’assessore è naturale. Ma ci sono anche molte altre battaglie e dissidi.
Entro settembre andrà concluso l’assestamento di bilancio del comune di Roma; può essere rimandato a novembre, ma va indicato ora dove allocare tutte le partite in entrata. Minenna contava, per dire, anche sui 400 milioni di Imu dovuti dal Vaticano. Ma il tema, su cui la sindaca esordì battagliera, è scomparso dai radar mediatici dopo il suo incontro col Papa (e dopo ulteriori contatti tra i cerimoniali). La Raggi ha promesso soldi ai 15 municipi, Minenna voleva invece centralizzare tutta la gestione delle risorse sul Campidoglio. Minenna voleva tagliare gli stipendi (tetto a 76 mila euro, Raineri a parte), ma i fedelissimi di Raggi (Marra in testa) non lo aiutavano. Minenna ritiene le Olimpiadi un volano, Olimpiadi che invece la giunta ha deciso di non fare. Minenna aveva un piano di ricucitura coi poteri, la Raggi non è ben chiaro. I fedelissimi di Roberta Lombardi, il presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e il capogruppo M5S Paolo Ferrara, ieri nella riunione di maggioranza in Campidoglio non hanno proferito verbo: segno che si sentono forti assai.
Di Maio, di fronte alla débâcle, sta cercando di eclissarsi. L’ideale è scaricarla sulla Raggi. Il messaggio che ieri le hanno mandato è: hai voluto fare con le tue gambe (ossia: hai voluto tenere Raffaele Marra, il vicecapo di gabinetto vicario, e il capo della segreteria Salvatore Romeo, facendo la guerra a Raineri e Minenna), ora vediamo cosa sei in grado di fare. La fase di difficoltà del vicepresidente della Camera è speculare al grande attivismo di Alessandro Di Battista, rientrato trionfante dal tour estivo in scooter, e molto apprezzato da Grillo; ma Di Battista più che altro cura il suo orticello, le proteste di piazza, certo non ha un piano alternativo al fallimento del Movimento dei grand commis.
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