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on questo sì a denti stretti, scrive Marcello Sorgi, il professore si ritaglia un ruolo nel dopo-voto e nella ricucitura del centrosinistra.
Il Professore si prepara al dopo voto
Adesso tutti a chiedersi quanto sposterà nelle urne il «Sì» di Prodi. Attesa da settimane, preceduta dalle prese di posizione a favore delle riforme di alcuni prodiani eccellenti, come ad esempio l’inventore dell’Ulivo Arturo Parisi, la dichiarazione di voto del Professore alla fine è arrivata, a soli quattro giorni dal referendum, sebbene accompagnata da una serie di esplicite riserve sul testo su cui dovranno pronunciarsi gli italiani, e da un antico detto contadino, che spiega tutto: «Meglio succhiare un osso che un bastone». Prodi dunque dice «Sì» a denti stretti e avverte il premier che si aspetta un cambiamento di marcia dopo il voto e un effettivo cambio della legge elettorale, per riequilibrare il nuovo assetto costituzionale che uscirebbe dall’approvazione popolare della riforma. E al contempo, con questa mossa sapiente, studiata nei tempi e nell’articolazione, si conquista un ruolo per il dopo-voto nella necessaria ricucitura della spaccatura del centrosinistra a cui anche Renzi ieri ha fatto accenno.
In realtà sono proprio le perplessità esplicite del due volte presidente del Consiglio dei governi del 1996 e del 2006, oltre che il suo carisma ancora oggi molto forte presso l’elettorato orfano dell’Ulivo e non del tutto convinto dal Pd, a dar peso alla decisione del Prof. Una scelta razionale, per certi versi scientifica.
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Prodi non è mai stato dov’è Berlusconi e si è sempre sentito stretto dove c’è D’Alema, ecco perché non poteva votare «No» e doveva schierarsi pubblicamente, per non lasciare dubbi, in nome di una coerenza con le sue posizioni che in tutti questi anni non è mai venuta meno. Allo stesso modo non ci si poteva aspettare una sua adesione convinta alla riforma del governo, di cui non ha condiviso la genesi (vedi il «patto del Nazareno»), il percorso e gli occasionali alleati centristi o di centrodestra, che via via si sono aggiunti a una maggioranza in difficoltà e che perdeva pezzi a sinistra. Inoltre, se non proprio Prodi, nelle file prodiane sono ancora tanti a considerare non rimarginata la ferita della mancata elezione del Professore alla Presidenza della Repubblica nel 2013, e a ritenere che, se il grosso della responsabilità di aver bruciato il candidato più prestigioso del centrosinistra fu di Bersani, per il modo confuso in cui il nome di Prodi fu portato in votazione senza la certezza di avere i voti necessari, tra i famosi centouno franchi tiratori che lo affossarono, un gruppo, o un gruppetto di renziani, doveva pur esserci.
Così il Prof. s’è rivolto alla sua gente, a quelli che ancora pensano che la sua stagione sia stata la migliore del centrosinistra, e ha chiesto loro di mettere da parte i dubbi e andare a votare «Sì». Difficile dire quanti siano, ma quelli che saranno certamente si aggiungeranno a chi aveva già stabilito di schierarsi per la riforma. Non a caso Renzi, che ha ringraziato Prodi malgrado le critiche, lo ha fatto poiché ha capito di aver aggiunto un mattone decisivo alla sua costruzione. E Bersani, che ha cercato di minimizzare, è consapevole che il «Sì» del Prof. sposta, eccome.
Nella campagna renziana sono proprio le novità degli ultimi giorni che possono capovolgere i pronostici finora favorevoli al «No». E accanto a quella di Prodi, non va trascurata l’altra notizia della giornata: l’accordo con i sindacati per i dipendenti pubblici, che porterà nelle tasche di tre milioni e trecentomila elettori aumenti di stipendio attesi dal 2010 e invano chiesti e richiesti prima di adesso. Se solo si riflette che la campagna referendaria è cominciata con la nuova legge di stabilità incentrata sugli aiuti ai pensionati e sull’anticipo dell’età pensionabile innalzata dalla legge Fornero, è ormai chiara e scoperta l’architettura del blocco sociale che nei piani del premier domenica dovrebbe salvare il governo e la riforma.
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