“L’attacco aereo in Siria contro un convoglio di aiuti delle Nazioni Unite è una tragedia Non conosce e non rispetta limiti”, scrive Stefano Stefanini, descrivendo l’ impotenza che aleggia sul Palazzo di Vetro.
Dove nasce l’impotenza dei Grandi
V
ittime civili di azioni militari sono sempre una tragedia umanitaria. L’attacco aereo in Siria contro un convoglio di aiuti delle Nazioni Unite è anche molto di peggio. E’ tutta la brutalità del conflitto siriano all’opera. Non conosce e non rispetta limiti. Sposandola il regime di Damasco non può neppure dare lezioni alla barbarie dello Stato islamico. Mentre a New York si apriva l’Assemblea Generale e si celebravano i riti annuali della diplomazia internazionale, la violenza gratuita del raid se ne faceva le beffe in Siria. L’immagine d’impotenza dei leader riuniti al Palazzo di Vetro non poteva essere più devastante.
Non sappiamo con certezza assoluta chi sia il responsabile del raid, ma è difficile concedere ad Assad il beneficio del dubbio. I ribelli non hanno aerei. L’errore di altre forze operanti nei cieli siriani è sempre possibile, ma Russia, Stati Uniti, Turchia e altri si tenevano stretta la tregua. Rimane solo l’aviazione di Damasco. Ban Ki-moon non ha avuto dubbi nell’accusare il governo siriano. Raramente un Segretario Generale dell’Onu è stato così esplicito nel puntare il dito contro un Paese membro: «Nessuno ha ucciso più civili del governo siriano, che continua a bombardare quartieri e torturare migliaia di detenuti». Ban avrà avuto buoni motivi, e sufficienti prove, per andare giù così pesante.
Nelle parole del Segretario Generale c’è molta frustrazione. Da due anni, il suo inviato speciale, Staffan de Mistura, insegue con tenacia una soluzione politica del conflitto siriano. Più di una volta si è avvicinato al negoziato. Il primo passo era, ed è, il cessate il fuoco. Altrimenti è impossibile negoziare seriamente.
Il raid è un siluro contro la faticosissima tregua raggiunta pochi giorni fa da John Kerry e Sergei Lavrov. Ha ridato la parola alla violenza, per di più a spese del personale civile dell’Onu che portava aiuti alla popolazione siriana. Le operazioni umanitarie sono state sospese o rallentate anche da altre organizzazioni come la Croce Rossa o la Mezzaluna siriana.
Restano ora da raccogliere i cocci. La diplomazia cercherà di salvare il salvabile – lo fa sempre. Il Segretario di Stato americano ha detto che «la tregua in Siria non è morta». Lavrov non l’ha smentito, ma la tensione fra Mosca e Washington si è subito impennata. Il barlume di cooperazione russo-americana contro Isis si è smorzato sul nascere.
Anche se le accuse ad «aerei russi» si riveleranno del tutto infondate (dimostrerebbe una tragica incompetenza), Mosca è comunque nella scomoda posizione di negare a priori che l’attacco sia opera dell’aviazione di Damasco. Altrimenti dovrebbe riconoscere di non controllare l’alleato siriano. Come avvenuto nel 2014 con l’abbattimento del volo MH17 da parte dei ribelli ucraini, la Russia si trova fra la padella della responsabilità per associazione e la brace del non voler prendere le distanze dagli autori del misfatto. E’ probabile che scelga il diniego – anche dell’evidenza. Resta l’interrogativo politico se sia Mosca a controllare Damasco o il regime a tenere la Russia ostaggio delle proprie fortune. Assad affronta una partita in cui Putin si gioca la credibilità, nonché le basi di Tartus e Latakia.
Siamo abituati, da sempre, all’incapacità dell’Onu di controllare le crisi internazionali. Le Nazioni Unite sono il riflesso delle scelte della comunità internazionale, in particolare delle grandi potenze, a cominciare da Stati Uniti e Russia (oggi se ne aggiungono altre). Durante la Guerra Fredda le crisi non si risolvevano perché i «grandi» non lo volevano. Lo scenario è cambiato – in peggio. Oggi non si risolvono perché neppure i leader mondiali hanno la capacità di controllare le forze che scatenano i conflitti e che sono alla radice delle minacce o crisi che devono fronteggiare.
Con una tregua violata alla faccia dei negoziatori riuniti a New York, la Siria è l’esempio più clamoroso. Lo è anche il prepotente irrompere dell’immigrazione nel mondo (non solo in Europa). Lo è anche il terrorismo, riapparso improvvisamente nelle strade di Manhattan alla vigilia del discorso con cui Barack Obama si è congedato dall’Onu.
Il Presidente americano ha parlato da saggio, ma la saggezza non rassicura gli americani o il pubblico mondiale. Altri, come Angela Merkel dopo la sconfitta elettorale a Berlino, affrontano lo stesso dilemma: tener ferma la barra, ma mostrare la via d’uscita. Il mondo è alla presa con forze dirompenti. La risposta alla sfida non si trova solo nei fori europei e internazionali, a Bratislava o a New York. I giochi si fanno sul terreno: in Siria, in Africa, nel Mediterraneo.
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