Bancarotta e truffa nel crac dell’ex Credito Cooperativo Fiorentino, guidato per vent’anni Interdizione perpetua da pubblici uffici. A Palazzo Chigi risarcimento di 2,5 milioni di euro
Verdini condannato a nove anni
E
ra tutto scritto lì, nella relazione di Bankitalia. I rapporti con i costruttori, i prestiti concessi sulla base di informazioni false o su contratti preliminari mai finalizzati, la struttura della banca piegata ai voleri dell’ingombrante presidente.
Il processo fiorentino, iniziato il 13 ottobre del 2015, vedeva imputati 43 persone e 2 società e aveva riunito una serie di inchieste che coinvolgevano Verdini e l’istituto da lui guidato. Una banca che al momento del commissariamento nel 2010 aveva 7 sportelli, 67 dipendenti e un migliaio di soci e che era di fatto il «bancomat» di Verdini, secondo la ricostruzione dei pm Luca Turco e Giuseppina Mione. Da un lato i finanziamenti per gli investimenti immobiliari del gruppo Fusi-Bartolomei, legati a Verdini da «relazioni d’affari». Dall’altro il buco della società editrice de Il Giornale della Toscana, che ha portato la presidenza del consiglio – parte civile in questo processo – a chiedere un risarcimento di 42 milioni di euro (2,5 milioni la provvisionale decisa dal tribunale, in attesa del giudizio civile). Al crac della piccola Bcc è stato collegato anche il complesso meccanismo ideato per accedere senza averne diritto – sulla base di una sorta di fatturazione circolare tra le varie società per prestazioni e servizi – ai contributi per l’editoria di alcune testate locali.
La sentenza di condanna è arrivata ieri nell’aula bunker di Santa Verdiana dopo 70 udienze. Accanto al crac del Ccf erano state legate le accuse di truffa allo stato per i fondi dell’editoria da parte della Ste, la Società Toscana di Edizioni che pubblicava il Giornale della Toscana e il crac del gruppo immobiliare Btp di Riccardo Fusi (già condannato nel processo sulla cricca degli appalti per i lavori alla Scuola Marescialli di Firenze) e Roberto Bartolomei, entrambi condannati a 5 anni e mezzo. Finanziati attraverso uno schema contratti preliminari basati su operazioni fittizie o comunque viziati da irregolarità di vario tipo. Un sistema che nel tempo avrebbe favorito una galassia di società – alcune fallite – contribuendo a svuotare il patrimonio del centenario istituto di credito, guidato da Verdini dal 1990 fino al commissariamento del 2010. Per i giudici non c’è stata però associazione per delinquere, come richiesto dai pm.
Immediato l’annuncio dei ricorsi in appello, pur in attesa delle motivazioni, dai difensori. Per tutti l’avvocato Franco Coppi, legale di Verdini («Ci aspettavamo ben altra sentenza. Per fortuna il nostro ordinamento prevede l’appello»), e del difensore di Riccardo Fusi, l’avvocato Sandro Traversi («Faremmo appello, continuiamo a credere che non esista il reato di bancarotta fraudolenta contestato a tutti» e, «tanto più, per un esterno» come Fusi). Verdini, una lunga militanza a fianco di Silvio Berlusconi, era «l’uomo che per l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi meritava di diventare Padre Costituente», ha commentato subito Michela Montevecchi, capogruppo M5s al Senato.
L’inchiesta era partita nel 2012, dopo la dichiarazione di fallimento dell’istituto. A salvare correntisti e dipendenti arrivò ChiantiBanca.
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lastampa/Verdini condannato a nove anni GIANLUCA PAOLUCCI
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