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Verona, la prima italiana incinta con la Zika: “Mio figlio mai nato per colpa del virus”. TIZIANA DE GIORGIO*

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La gravidanza in Brasile, la malattia, poi la scoperta dei problemi al feto. Sofia racconta il suo calvario: “Il momento peggiore è stato quando ho visto quelle macchie sull’ecografia”

PESCHIERA DEL GARDA ( VERONA). Sofia stringe fra le mani una foglia di quercia raccolta in autunno su un prato di Lubiana. E l’impronta di un minuscolo piede impressa su un cartoncino con l’inchiostro blu. È tutto quello le rimane di Pietro, suo figlio. “Sarebbe dovuto nascere il giorno dell’Immacolata, a Verona. Non ne ha avuto il tempo: Zika è stato più veloce “. È lui la prima vittima italiana del virus che terrorizza il Centro America. Sofia oggi ha 26 anni e fino a pochi mesi fa viveva in Brasile, dove si è sposata. Era il 2012 quando ha deciso di lasciare il Veneto per trasferirsi a Natal. Studiava biologia, voleva diventare un’esperta di botanica medica. E a marzo ha scoperto di essere incinta. “Un inizio di gravidanza difficile ma normale”, racconta seduta su una panchina davanti al lago di Garda, luogo della sua infanzia. Mentre i suoi grandi occhi verdi e profondi fissano l’acqua. “Fino a quando non sono arrivate quelle bolle”.
Di che bolle parla, Sofia?
“Una mattina me le sono trovate su tutto il corpo. Sotto i piedi, sotto le mani. Per due giorni non sono riuscita a dormire per il prurito. Poi, i dolori alle ossa. La febbre altissima. Ero all’inizio del terzo mese, mi sono spaventata “.
Ha chiamato un medico?
“La mia ginecologa di Natal. Al telefono mi ha detto: “Stai tranquilla, dovrebbe essere il nuovo virus, si chiama Zika”. Non avevo mai sentito quel nome in vita mia. Ma lei mi ha rassicurato: “Passa nel giro di qualche giorno, non devi fare nulla”. Mi sono fidata”.
È andata così?
“Dopo tre giorni era scomparso tutto, sono tornata alla normalità. Dalle visite successive ho scoperto che era un maschio. Vedevo il suo corpicino: “Va tutto bene”, mi dicevano i medici durante i controlli. L’ho chiamato Pietro da subito”.
Perché ha deciso di tornare in Italia?
“Volevo far nascere mio figlio qui. Sono arrivata in estate e ho iniziato a fare tutte le analisi di routine in un ospedale di provincia, vicino a casa”.
Quando si è accorta che qualcosa, nel bambino, non andava?
“Ad agosto. Ero al quinto mese quando la ginecologa mi disse: “Ma è sicura di aver concepito questo bimbo a marzo? Perché è molto più piccolo del normale”. Mi ha detto di tornare venti giorni dopo per ulteriori controlli. Un’eternità. Alla seconda visita mi hanno spedita al pronto soccorso dell’Ospedale civile maggiore di Borgo Trento come gravidanza a rischio”.
È una delle sedi dell’ospedale più importante di Verona. Che cosa le hanno detto?
“Hanno fissato per la settimana successiva un’ecografia di terzo livello. Ma il tempo passava. Comunque, è qui che una dottoressa, all’improvviso, ha sgranato gli occhi. “E queste cosa sono?”, ha detto fissando il monitor. Indicava la testa di Pietro”.
Cosa aveva visto?
“Delle macchie. Non capiva cosa fossero. L’abbiamo scoperto il 23 settembre con una risonanza magnetica fatta la Policlinico. Le loro parole, quando è arrivato l’esito, non le dimenticherò mai”.
Mi racconti cosa c’era scritto in quell’esito, Sofia.
“Ancora prima di poterlo leggere, una dottoressa mi ha messo una mano sulla spalla. Mi ha detto che ero giovane, che avrei potuto avere tutti i figli che desideravo. In futuro”.
Perché in futuro? Cos’aveva Pietro?
“Il suo cervello era pieno di cisti. Era come se un tarlo si fosse mangiato i suoi tessuti. Mi hanno spiegato che non avrebbe potuto vedere, sentire. E nemmeno parlare”.
Le hanno spiegato il motivo di quelle cisti?
“Avevo fatto tutte le analisi per le malattie tropicali come la Dengue. Negative a tutto. Nel frattempo mi ero documentata, continuavo a ripetere ai dottori che venivo da un paese dove c’era un virus di nome Zika. Mi hanno detto che non c’era letteratura, che non ne avevano mai sentito parlare”.
Cosa hanno deciso di fare i medici a quel punto?
“Non hanno deciso niente. Mi hanno lasciata sola. Domandavo se il mio bambino sarebbe stato un vegetale, se aveva speranze di vita. Nessuno si sbilanciava. Ma mi hanno fatto capire che sarebbe stato meglio abortire. A quel punto però era al settimo mese. “In Italia non possiamo”, hanno detto. Poi, quasi di nascosto, mi hanno dato un foglio”.
Che c’era scritto?
“L’indirizzo del Centro clinico universitario di Lubiana, in Slovenia: “Lì si può fare, vada lì””.
E lei è partita per Lubiana.
“Ero disperata, nessuno mi dava risposte. Quando sono arrivata, il 12 ottobre, è stata istituita una commissione medica per me. In Italia, niente di tutto questo. Ma si sono accorti che Pietro nel frattempo aveva smesso di muoversi”.
Pietro non è mai nato?
“Sono stata indotta al parto il 15 ottobre, il suo cuore non batteva più. Ho solo queste impronte del piede e della mano che mi ricordano mio figlio. I suoi tessuti li ho donati ricerca: un mese più tardi mi hanno mandato risultati dell’autopsia. Nel suo cervello hanno trovato, per la prima volta in Europa, il virus Zika. Il mio caso è stato pubblicato sulla rivista inglese specialistica New England Journal of Medicine con il titolo: “Zika virus associated with microcephaly””.
Perché conserva quella foglia di quercia, Sofia?
“A Lubiana abbiamo potuto celebrare un funerale per Pietro, insieme agli altri bambini mai nati. Lì si usa così. Abbiamo sparso le sue ceneri su una collina, è simbolo della pancia di una mamma. Questa foglia è caduta proprio in quel momento. Ho la sensazione che protegga lui. E me”.
 
*larepubblica

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