Nelle ultime battute della legislatura si registrano schermaglie a sinistra: il blitz della minoranza Pd sul Jobs act fa andare sotto il governo. La marcia indietro dopo il flop di Pisapia.
Resa dei conti sul Jobs act, blitz della minoranza Pd e il governo finisce battuto
Più risarcimenti ai licenziati. Marcia indietro dopo il flop con Pisapia
ROMA – «Ma che davvero volete mandare sotto il governo a due mesi dalle elezioni sul Jobs act?», aveva chiesto incredula, alla riunione del gruppo Pd della commissione Lavoro, Irene Tinagli, ex Scelta Civica, fiera sostenitrice dell’attuale impianto della riforma. Ma è quello che puntualmente è avvenuto ieri: il governo, nella persona di Luigi Bobba, sottosegretario del ministro Poletti, chiede il ritiro e poi si dichiara contrario a due emendamenti della commissione. Uno sulla governance dell’Inps (che introduce una riforma ordinamentale tramite la legge di bilancio), l’altro sul raddoppio degli indennizzi ai lavoratori per i licenziamenti senza giusta causa. Il presidente della Commissione, Cesare Damiano, però non lo ritira e il testo viene approvato con i voti Pd.
La materia è bollente ed è entrata due settimane fa nella trattativa con Giuliano Pisapia. Non solo: con la premessa «non rinneghiamo ciò che abbiamo fatto», nella dichiarazione di voto contro il ripristino dell’articolo 18 chiesto da Mdp, Ettore Rosato in aula alla Camera aveva detto che il Pd era disponibile a ragionare, dati alla mano, su un aumento degli indennizzi, se fosse stato utile per la coalizione. Insomma era il punto di mediazione con la sinistra.
Ma ieri è deflagrato il cortocircuito: Damiano è uno dei big della minoranza che fa capo a Orlando. Con questa piattaforma, mirata a rendere meno conveniente per le imprese licenziare, ha accompagnato Fassino quando tentò di far entrare Mdp nella coalizione. E ora la rivendica. Quando la trattativa con Pisapia era al suo apice, dal governo informalmente vi fu una cauta apertura su questa correzione al Jobs act, sgradita alle imprese. «Ma oggi che con Pisapia è finita la storia, il governo tira i remi in barca e non accetta più una modifica che Renzi non ha mai amato», ammette un pezzo grosso del Pd per spiegare cosa sia successo.
Fatto sta che il Partito democratico in Commissione va in ordine sparso e il risultato è un caos: al momento clou, esponenti della maggioranza Pd di varie correnti, Rotta, Gribaudo, Tinagli, Di Salvo, Lavagno, Arlotti, Rostellato, non votano il raddoppio da 4 a 8 mesi delle mensilità minime e da 24 a 36 di quelle massime come risarcimento per i licenziati nelle aziende con più di 15 dipendenti. L’emendamento a prima firma Damiano dunque passa però con i voti degli altri membri della commissione, che fanno capo tutti alla minoranza. Un fattaccio tutto «interna corporis» al Pd, visto che in Commissione non c’era nessuno delle opposizioni, presenti solo Prataviera e Auci del Misto. «La minoranza ha forzato la mano sapendo che il governo sarebbe andato sotto», commenta una deputata sdegnata. La Rotta è imbarazzata. «Speriamo che tutto si chiarisca, non esiste che Commissione e governo vadano in due direzioni diverse».
Il paradosso è che i deputati della maggioranza Pd che non sono contrari sul merito, non potendo andare contro il governo per gli evidenti riflessi politici, preferiscono non partecipare allo scrutinio. Ma non lasciano agli atti un voto contrario.
Anche tra i renziani meno ortodossi c’è chi sostiene che «non si possono fare ritorsioni per quanto successo con Pisapia e bisogna correggere il Jobs act». Fatto sta che questo emendamento non si trasformerà in norma: la Commissione Bilancio boccerà tutto. «Abbiamo voluto dare un segnale di correzione all’attuale normativa perchè oggi licenziare costa troppo poco ed è troppo facile», dice soddisfatto Damiano. Ma al di là della bandiera piantata dalla minoranza Pd, il caso è sintomatico della confusione che regna sovrana tra i dem dopo il flop delle trattative a sinistra.
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