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Castellammare di Stabia

Legge di stabilità e Referendum: le sfide di Renzi

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Il premier Renzi ha davanti due sfide incrociate: la legge di stabilità e il referendum. Può vincere o perdere tutto

L’autunno dello scontento

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’ITALIA non cresce e quindi tutte le previsioni economiche saranno riviste al ribasso. Non è solo la resa dolorosa di un governo che cede troppo tardi al principio di realtà. È anche una scossa emergenziale. Può spingere Renzi a trasformare la prossima manovra in un altro bancomat elettorale, in vista del voto di dicembre.

Dunque, un maleficio potenziale. Ma non c’è da stupirsi. È il minimo che possa accadere, quando il capo di un governo trasforma la normale consultazione popolare su una riforma della Costituzione nell’alfa e l’omega di una democrazia. Nell’appuntamento con la Storia per un’Italia che, attraversandolo, può risorgere o perire. E quando tutti gli altri, nel discorso pubblico interno e ora persino internazionale, gli vanno dietro su questa pericolosissima china, per troppo odio o per troppo amore.

Nell’autunno del nostro scontento, Renzi ha di fronte due sfide cruciali e incrociate. La legge di stabilità e il referendum sulla riforma costituzionale. Se si gioca bene la prima, può vincere il secondo. In caso contrario, perde tutto. Nella prima parte dell’anno il premier ha sbagliato strategia e prospettiva. Ha puntato l’intera posta sul referendum. Trasformandolo (di fronte al Palazzo, al Paese e al Pianeta) in un’ordalia su se stesso. Se vince il sì, le verdi vallate svizzere: stabilità e progresso. Se vince il no, le sette piaghe d’Egitto: ingovernabilità e miseria. Un errore politico che produce solo guai. Lo ha capito, e da un paio di settimane sta faticosamente cercando di “spersonalizzare” il voto. Non è scontato che l’operazione riesca (perché è partita tardi, perché la riforma è obiettivamente pasticciata e perché il fronte del no ormai coagula, oltre a un profondo disagio sociale, un diffuso dissenso politico).

Ma dal suo punto di vista un “buon uso” della manovra economica, così come la sponda delle cancellerie straniere e dell’establishment internazionale, può senz’altro agevolare il compito. Ecco perché, nello spazio di pochi giorni, l’agenda è radicalmente cambiata. Renzi fa slittare la data del referendum a dicembre. Riapre addirittura un confronto sull’Italicum (si vedrà poi se reale o strumentale), prima ancora che si pronunci la Consulta all’inizio di ottobre. Così “compra” tempo. Il tempo che serve – e qui siamo al punto che più ci sta a cuore – a varare una Legge di stabilità finalmente “espansiva”. Cosa significa “espansiva”? E quante probabilità ha di passare al vaglio di Bruxelles?

Gli indizi non fanno una prova, ma non confortano. Siamo in guerra con la perfida Merkel (dopo aver celebrato a Ventotene un patto di ferro con la Cancelliera evidentemente fittizio) e per ora Bruxelles non ci offre sponde sulla nuova flessibilità di bilancio. E poi, se è vero che la gente non mangia pane e referendum, un solido e credibile “piano organico per la crescita” conta molto di più del mitico (o fantasmatico) “Senato dei 100”. Ma oggi di questo piano non si vede ancora traccia.

Nei 25-30 miliardi di cui si parla sembra di cogliere lo stesso vizio delle manovre renziane già collaudate. Un’altra pioggia di “bonus”. Generosi, perché la platea dei beneficiari è vasta: pensionati e impiegati pubblici, partite iva, piccoli imprenditori e persino albergatori. Dispendiosi, perché la somma degli interventi ha alti costi (attuali) soprattutto in rapporto ai benefici (eventuali). Dal 2014 il governo ha speso oltre 30 miliardi, tra i famosi 80 euro, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e il Jobs act più la decontribuzione per i neo-assunti. Eppure, i consumi sono aumentati meno della metà del previsto, i valori degli immobili sono in continua flessione e i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato (nonostante la grancassa governativa sull’aumento totale dello stock di occupati) sono scesi del 29,4%. Se poi aggiungiamo il bonus bebè, il primo bonus Poletti sulle pensioni, il bonus per famiglie numerose, il bonus mobili per le coppie sotto i 35 anni, il bonus Stradivari per l’acquisto di strumenti musicali e il bonus cultura per i 18enni, il quadro è completo.

Questo errore non andrebbe ripetuto. Servirebbe una scelta netta, non le solite mancette. Tutti i “tesoretti” spendibili, per esempio, potrebbero essere concentrati sull’unica voce che coniuga i bisogni delle famiglie e quelli delle imprese: un abbattimento del 30-50 per cento del cuneo fiscale, come ha scritto Eugenio Scalfari domenica scorsa. Ma Renzi non sembra orientato a questo cambio di prospettiva. Non aggredisce il tema della riforma fiscale, mentre è costretto a rinviare al 2018 la riduzione Irpef (di cui invece aveva annunciato l’anticipo per il 2017). Non riesce a violare il tabù dell’evasione fiscale, mentre è costretto a riproporre la “voluntary disclosure” (che crea solo gettito “una tantum”, non è un condono ma certo non rafforza una seria lotta ai furbetti delle tasse). L’orizzonte, ancora una volta, non sembrano le prossime generazioni, ma le prossime elezioni.

L’intervento sulle previdenza e sul pubblico impiego ha esattamente questo “segno”. Sarebbe utile, anche qui, una “riforma della riforma” Fornero. Invece arriva l’Ape, che non risolve il problema dell’anticipo pensionistico per disoccupati, usurati o precoci (se non per i pochi che possono permettersi di ripagare il prestito con 50-60 euro al mese per vent’anni). Ma insieme alla quattordicesima per chi ha un assegno inferiore ai 1.000 euro, mette comunque un po’ di spiccioli nelle tasche di un certo numero di pensionati. L’obiettivo è chiarissimo: Renzi guarda a quel blocco sociale che dopo le troppe delusioni ha cominciato ad allontanarsi dal centrosinistra, soprattutto alle ultime amministrative. Se il premier riesce a riportare questo pezzo di società italiana alle urne del referendum di dicembre, la vittoria del sì diventa possibile.

Ecco perché è fondamentale capire cosa significhi manovra “espansiva”. Se vuol dire “elettorale”, Renzi può anche vincere la sua guerra contro Grillo e contro la minoranza del suo partito (e nonostante gli abbracci soffocanti di Washington). Ma il Paese rischia di perdere l’ultima occasione per provare ad uscire da questa crisi. Renzi non è Pinochet, come da solenne sciocchezza dell’irresponsabile Di Maio. Ma non può e non deve fare come Peron.

Repubblica/L’autunno dello scontento MASSIMO GIANNINI


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