<em>Invece degli slogan, il governo potrebbe fare di più contro il caporalato, concedere il soggiorno a chi ha un lavoro e facilitare gli impieghi stagionali.
La politica del governo sugli immigrati sembra orientata a colpire i bersagli deboli. Ma al di là degli slogan, un rapporto positivo tra immigrazione e sicurezza si costruisce solo promuovendo il lavoro dei migranti nell’economia legale del nostro paese, cosa non contemplata nell’attivismo di Salvini sull’immigrazione dietro il quale c’è la ricerca di consenso e una visione del mondo com’era una volta, con gli steccati a definire le relazioni internazionali.
Così si colpiscono i più deboli
In queste settimane la questione dell’immigrazione continua ad avere un ruolo di primo piano. Appena prima della vicenda della nave Aquarius, c’era stata quella della tragica morte di Sacko Soumali, il giovane maliano sindacalista dei braccianti di San Calogero. Le due questioni sono legate fra loro.
La controversia sull’Aquarius è molto più che un braccio di ferro sull’onere dell’accoglienza. Rifiutando l’approdo della nave, polemizzando con Malta e poi con la Francia e la Spagna, rilanciando l’allarme sugli sbarchi, il nostro governo ripropone un’impostazione delle relazioni internazionali che guarda al passato. È l’immagine di un mondo di confini di stato almeno apparentemente blindati, di interessi nazionali contrapposti, di bandiere da issare e difendere. Un mondo in cui non c’è posto per i diritti umani universali, ma solo per quelli filtrati dalla sovranità nazionale o dai suoi simulacri.
Subito dopo aver respinto l’Aquarius, condannando a giorni di navigazione in mare agitato persone già provate da molte vicissitudini, tra cui donne incinte e minori, il governo italiano ha accolto oltre 900 richiedenti asilo salvati dalla marina militare e dalla guardia costiera italiana e altri 40 tratti a bordo dalla marina statunitense. I naufraghi salvati dai militari che innalzano la nostra bandiera sono tollerati e così pure quelli imbarcati dal potente alleato. Il nemico, come nell’Ungheria di Viktor Orban e nella Russia di Vladimir Putin, sono le organizzazioni non governative con base all’estero: i difensori dei diritti umani universali che non arretrano di fronte ai confini nazionali.
La linea governativa sembra tracciata. Mentre sarà difficile attuare le impegnative promesse elettorali di carattere sociale (reddito di garanzia, sviluppo del Mezzogiorno e controriforma pensionistica), la coalizione a trazione leghista investe su bersagli deboli, e quindi facili da colpire: gli attori umanitari, gli operatori dell’accoglienza e naturalmente i richiedenti asilo, oggetto di un linguaggio ingiusto e irriguardoso.
Matteo Salvini ha parlato di gente in crociera nel Mediterraneo, malgrado i morti in mare dei recenti naufragi. A quanto risulta dai sondaggi, raccoglie consenso, come in genere avviene a chi eccita sentimenti nazionalisti, ma dà eco ai sentimenti peggiori della pancia del nostro paese e li fomenta. Che i numeri siano drasticamente calati dopo gli accordi con la Libia di Marco Minniti è irrilevante: 15.568 persone sbarcate nel 2018 fino al 15 giugno, contro 65.498 nel 2017 e 55.596 nel 2016 alla stessa data. Gli sbarchi stanno invece crescendo verso Grecia e Spagna, ma anche questo non conta. La retorica della chiusura nazionalista ha bisogno di qualche centinaio di malcapitati a cui chiudere la porta in faccia, additandoli come profittatori e criminalizzando le Ong che li hanno tratti in salvo.
La tragedia di Sacko Soumali, invece, ha riportato alla ribalta una questione annosa e sempre rimossa, dopo le fiammate di attenzione dovute a qualche drammatico evento: lo sfruttamento degli immigrati nelle campagne meridionali, e non solo. Non necessariamente clandestini, né sbarcati negli ultimi anni, e neppure africani. La periodica ricostruzione delle vergognose baraccopoli mostra un volto inquietante di una componente dell’agricoltura italiana: per reggere sul mercato, ha bisogno di ricorrere al lavoro sottopagato degli immigrati e di farli vivere in condizioni inaccettabili.
Il lavoro degli immigrati, per fortuna, è anche altro: 2,4 milioni di occupati regolari, tra cui 570 mila titolari di attività economiche. Un gettito fiscale e contributivo che supera ampiamente i costi dell’accoglienza dei rifugiati e dei servizi richiesti dalle famiglie arrivate dall’estero. Ma rimane in gran parte lavoro povero, subalterno. Il lavoro delle “cinque p”: precario, pesante, pericoloso, poco pagato, penalizzato socialmente.
Tre proposte
Di tutto questo nel contratto di governo non c’è traccia, come è stato già rilevato su lavoce.info. L’immigrazione è declinata soltanto come peso e minaccia per il nostro paese.
Volendo credere che il confronto con la realtà possa avere la meglio sugli slogan propagandistici, vorrei avanzare tre modeste proposte in tema di immigrazione e lavoro, che investono anche la questione dei rifugiati e richiedenti asilo, pur ricordando che si tratta attualmente di 174 mila persone in accoglienza su 5,5 milioni di immigrati residenti in Italia. Una piccola minoranza, sistematicamente scambiata con l’immigrazione in generale. Senza dimenticare che circa il 40 per cento dei richiedenti riceve una forma di protezione internazionale da parte delle commissioni governative, mentre altri (non si sa quanti, ma si stima circa la metà dei ricorrenti) ottengono ragione in tribunale. Non è vero, quindi, che si tratti per la maggior parte di falsi rifugiati.
La prima proposta deriva dai fatti di San Calogero: mandare un folto gruppo di ispettori del lavoro, scortati dalle forze dell’ordine, a identificare e denunciare i datori di lavori che sfruttano i braccianti immigrati. Non dovrebbe essere difficile: basta seguire le campagne di raccolta dei prodotti agricoli, vedere dove sorgono le baraccopoli, seguire i pullmini che li portano al lavoro. Eventualmente con i droni. Un governo che promette il carcere agli evasori fiscali dovrebbe dispiegare una severità ancora maggiore con chi calpesta la dignità dei lavoratori.
La seconda proposta riguarda la riduzione del carico dei richiedenti asilo per le casse dello stato: come in Germania e in Svezia, chi trova un lavoro dovrebbe ricevere un permesso di soggiorno, inizialmente di un anno, ponendo fine alle controversie sulla fondatezza della domanda di asilo. Potrebbe così cominciare una vita autonoma, uscendo dal sistema dell’accoglienza. Non ha senso, come invece avviene oggi, buttare per strada un richiedente asilo che ha trovato lavoro, ma poi si vede negata la domanda di protezione internazionale.
Infine, per decongestionare il canale dell’asilo e istituire un’alternativa ai rischiosi viaggi attraverso la Libia e poi per mare, oltre a corridoi umanitari più ampi degli attuali, si dovrebbero allargare le possibilità di immigrazione per lavoro stagionale, già previste dalle nostre leggi e dai decreti flussi annuali. Gli Stati Uniti hanno ridotto l’immigrazione non autorizzata dal Messico proprio riaprendo un canale d’immigrazione legale, stagionale, per l’agricoltura. Se le persone potranno entrare, lavorare e tornare al loro paese per ripresentarsi l’anno successivo, saranno meno disposte a rischiare la vita nei viaggi della speranza.
Al di là degli slogan propagandistici, un rapporto positivo tra immigrazione e sicurezza verrà costruito solo promuovendo il lavoro degli immigrati nell’ambito dell’economia legale del nostro paese.
Maurizio Ambrosini/lavoce.info
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