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Il patto Putin-Erdogan: intesa tra autocrati

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I presidenti di Russia e Turchia, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan celebrano a San Pietroburgo un’intesa che cambia lo scenario internazionale. Dopo mesi di aspre rivalità sulla Siria, Mosca allenta le sanzioni economiche alla Turchia e Ankara riapre il cantiere del gasdotto che serve ai russi per portare il gas in Europa dribblando l’Ucraina. Le convergenze strategiche rivelano quanto sta avvenendo: gli ex rivali portano una temibile sfida all’Occidente, come riassume Stefano Stefanini nell’ articolo pubblicato oggi su la stampa

  • Dal patto di San Pietroburgo una sfida all’Occidente STEFANO STEFANINI

Erdogan e Putin 1(foto dal web)Cosa si saranno detti a tu per tu Erdogan e Putin? Hanno rilanciato alla grande commercio, turismo, cultura e, soprattutto, energia. La via turca del gas («Turkish Stream») ridiventa d’attualità. Sulla dimensione politica tuttavia la conferenza stampa non è andata oltre scontate banalità.

Il riavvicinamento strategico con Mosca vede la Turchia prendere, di fatto, le distanze dall’Europa e dall’Occidente. Da che l’Akp è al potere Ankara svolge una politica estera eccentrica. Era però limitata a nostalgie neo-ottomane circoscritte al quadrante mediorientale. In una fase di confronto fra Mosca e Stati Uniti, sotto sanzioni Ue alla Russia, l’incontro di San Pietroburgo colloca la Turchia, Paese Nato, in un’orbita di esplicite simpatie per Mosca.

Sepolta l’ascia di guerra con Mosca, Erdogan s’avventura sul sentiero di guerra verbale con americani e europei. L’Ue è oggetto di costante critica per non aver ancora abolito i visti; gli Usa sono rei di ospitare Fetullah Gulen. La stampa turca filogovernativa ha addirittura accusato un rispettabile think tank di Washington, il Woodrow Wilson Center, di aver collaborato con i seguaci di Gulen nel fallito putsch del 15 luglio. Il Presidente turco rasenta i limiti di compatibilità con il tradizionale atlantismo turco e con l’eterna candidatura all’Ue. Ritiene di avere il coltello dalla parte del manico: l’Ue ha bisogno dell’accordo sull’immigrazione; Washington della Turchia nella Nato. Attento però a non tirare troppo la corda.

Erdogan e Putin colgono l’Occidente in un momento d’indecisione e debolezza. L’America è ormai entrata in una strana campagna presidenziale, in cui un candidato (solo) teoricamente ineleggibile affronta una rivale bravissima, ma impopolare. L’amministrazione è in grado, fino all’ultimo, di prendere decisioni importanti, come l’intervento in Libia; non può pensare al medio e lungo termine. L’Europa sta peggio. Alle corde su terrorismo e immigrazione, alle prese con crisi economico-finanziarie che non riesce a risolvere, perde pezzi strategici e si comporta da nano politico internazionale.

A San Pietroburgo s’incontravano due leader che sentono di navigare col vento in poppa. Potrà non durare. La meteorologia è sempre variabile, specie nel Mediterraneo e dintorni. Ma per il momento Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan trasudano fiducia da tutti i pori.

A un anno dall’intervento a sorpresa in Siria, il Presidente russo sente di aver vinto la scommessa della tenuta di Damasco (quali che siano le sorti di Assad) e, soprattutto del ritorno di Mosca in Medio Oriente. Quello turco è sull’onda del trionfo popolare dopo il quasi dilettantesco colpo di Stato. Anche l’opposizione, tranne i curdi, si è dovuta schierare dalla sua parte. La strada per l’agognata Turchia presidenziale sembra spianata. Non che faccia molta differenza: di fatto il potere è già tutto nelle mani di Erdogan.

La posizione di forza di Erdogan e Putin non va sopravvalutata. Russia e Turchia hanno i loro problemi: la crisi ucraina e le sanzioni per la Russia; la guerra in Siria, l’irredentismo curdo e l’instabilità in Medio Oriente per la Turchia. Le capacità di ripresa dell’Occidente non vanno sottovalutate. Fra sei mesi ci sarà a Washington una nuova amministrazione in grado d’iniettare dinamismo sulla scena internazionale. Un rinnovato impegno americano in Europa può minimizzare le ricadute strategiche negative dell’uscita del Regno Unito dall’Ue. Anche l’Ue finirà per rendersi conto che il dibattito su Brexit non si limita al Mercato Unico. In gioco è la tenuta occidentale e atlantica. C’è speranza che, se non Bruxelles, le capitali europee tornino a fare politica estera.

Putin e Erdogan sanno d’incassare un temporaneo vantaggio. I loro commenti sul rapporto con gli Usa erano improntati alla prudenza. Non sono d’accordo su tutto: resta da sciogliere il nodo siriano. Li lega però un’affinità profonda, che ha poco a che vedere con gli affari internazionali e molto con la politica interna. Sono entrambi autocrati di nuovo stampo: eletti democraticamente e governanti autoritari. Il loro potere si basa sul consenso della maggioranza e sulla loro capacità di crearlo e alimentarlo. Si capiscono al volo e continueranno a farlo.

Questo modello demagogico di autocrazia per consenso ha fatto scuola. Volente o nolente l’Europa deve abituarsi a convivere e lavorare anche con questi interlocutori, spesso indispensabili. E combattere il virus prima di esserne più gravemente contagiata.

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