Latitante dal 1993, Matteo Messina Denaro è stato condannato per le uccisioni di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le rispettive scorte.
La Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dopo oltre 14 ore di camere di consiglio, ha condannato all’ergastolo il boss latitante Matteo Messina Denaro per le stragi del ’92 di Capaci e Via D’Amelio costate la vita ai Magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alla moglie del giudice Falcone, Francesca Morvillo (anche lei Magistrato), e agli otto agenti delle loro scorte: Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Capo della mafia trapanese, Messina Denaro, ricercato dal 1993, è stato tra i responsabili della linea stragista di Cosa nostra imposta dai corleonesi di Totò Riina.
Messina Denaro avrebbe determinato all’interno di Cosa nostra – ha sostenuto in Aula il Procuratore aggiunto Gabriele Paci – “un clima di unanimità senza il quale il capomafia corleonese Totò Riina non avrebbe potuto portare avanti i suoi piani stragisti, se non a rischio di una guerra di mafia». Durante la requisitoria, il magistrato, che ha richiesto l’ergastolo, ha spiegato che il ruolo di Messina Denaro è stato decisivo per la linea seguita dalla mafia di allora: «Non è sostenibile che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso quella strada senza avere il consenso di Cosa nostra, perché se ci fosse stato il dissenso dei vertici di una delle province ci sarebbe stata una guerra”.
Il latitante, originario di Castelvetrano, è già stato condannato all’ergastolo per le Stragi del 27 luglio 1993 a Firenze, Roma e Milano in cui morirono dieci persone. Messina Denaro però non era mai stato processato per le bombe che causarono la morte dei magistrati Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e otto agenti delle scorte.
La sentenza di questa notte riconosce il ruolo nella ‘strategia stragista’ di Cosa nostra del latitante originario di Castelvetrano (Trapani), come anello di collegamento tra le bombe del 1992 pretese da Totò Riina e gli attentati nel nord Italia, a Firenze, Milano e Roma del 1993, volute da Bernardo Provenzano. In quell’estate iniziò la sua latitanza che prosegue da 27 anni.
“Messina Denaro è stato un mafioso che ha rinunciato a qualsiasi spazio vitale di autonomia sapendo che era l’inevitabile dazio da pagare per la sua ascesa dentro Cosa nostra, carriera che Riina favorì, nominandolo reggente della provincia di Trapani” ha detto il Pm Paci durante la requisitoria.
Nel corso del processo, iniziato nel 2017, la corte d’Assise di Caltanissetta ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ricostruendo i mesi precedenti agli attentati che portarono all’uccisione dei magistrati Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e otto agenti della scorta.
“La decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza – ha aggiunto il Pm nel corso della requisitoria – dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa Nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso parlerei di totale dedizione alla causa corleonese”.
Il processo contro Matteo Messina Denaro mandante delle stragi del ’92 ha analizzato i mesi precedenti ai due attentati ai Giudici antimafia. A quasi trent’anni di distanza, la Procura di Caltanissetta ha animato una rilettura di quei momenti, alla luce di nuove testimonianze, associate a nuovi elementi emersi nel corso dei processi svolti in questi decenni.
Durante il processo si è appreso di due riunioni svolte alla fine del 1991, una ad Enna ed un’altra a Castelvetrano, nel corso delle quali sarebbe stata decisa la ‘strategia stragista’ da adottare.
A chiarire il profilo del latitante a ridosso delle due stragi “non ci sono soltanto i nuovi pentiti del trapanese, ma anche le dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina”, ha detto il Pm Gabriele Paci, titolare dell’accusa, oltre che “le intercettazioni di Totò Riina in carcere, chiarissime nell’indicare chi era Matteo Messina Denaro, anche nel riferimento per l’omicidio di Paolo Borsellino a Marsala”.
Nei primi del ’92, Francesco Craparotta e Vincenzo D’Amico, capi della famiglia mafiosa di Marsala, furono uccisi – secondo quanto emerge da altri processi – per essersi rifiutati di uccidere il Giudice Borsellino. Lo stesso movente avrebbe causato la morte di Vincenzo Milazzo, capo della famiglia di Alcamo, e la compagna Antonella Bonomo, uccisi il 14 luglio, a pochi giorni dalla Strage di via d’Amelio.
Per questo – secondo la tesi accusatoria – don Ciccio Messina Denaro di Castelvetrano e Mariano Agate di Mazara del Vallo, che si erano alternati ai vertici della famiglia mafiosa di Trapani, avrebbero fatto un ‘morbido’ passo indietro, per evitare fratture con Toto’ Riina, descritto dai pentiti come un despota alla ricerca di consensi.
Così il figlio Matteo che all’epoca aveva trent’anni ed Enzo Sinacori, poi divenuto collaboratore di giustizia, avrebbero preso il posto dei due vecchi capimafia. Entrambi nel febbraio 1992, assieme ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, parteciparono alla cosiddetta ‘missione romana’ in cui era prevista l’uccisione nella capitale del Giudice Falcone, oltre che di alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Costanzo. Un’operazione fallita che però dimostrerebbe la piena partecipazione alla ‘strategia stragista’ del 1992.
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