«Questi hanno già deciso di andarsene. Speranza ha gettato la maschera», sbotta Matteo Renzi parlando della minoranza Pd. Per l’ex premier la prova del nove sulle reali intenzioni dei bersaniani la fornisce l’ex capogruppo con l’invito al segretario a non ricandidarsi al Congresso seguendo l’esempio di Veltroni e Bersani. L’ipotesi della mediazione si allontana.
“Hanno gettato la maschera”. Renzi rinuncia a mediare
I sondaggi rassicurano l’ex premier che vuole un congresso “sulle idee” ma senza rinviare all’autunno. Il timore di primarie senza rivali
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el resto la giornata aveva offerto al leader diversi spunti di pessimismo. A partire da quella lettera aperta di Bersani sull’Huffington Post, letta dai renziani come una sorta di ultimatum, prendere o lasciare. Un’impressione rafforzata dal colloquio tra Lorenzo Guerini e lo stesso Bersani, prontamente riferito al Nazareno, in cui il leader della minoranza avrebbe chiesto più tempo «perché non abbiamo ancora un candidato forte da schierare».
Con il Pd sull’orlo del precipizio, Renzi ha comunque deciso di scendere in campo per lanciare un appello all’unità del partito. Perché si capisca che fino all’ultimo lui c’ha provato. Forte anche del sondaggio di Euromedia che lo dà vincente alle primarie come leader del Pd con il 58,4% tra gli elettori dem, contro il 3,6% di Emiliano e il 4% di Speranza. La voce che oggi il segretario avrebbe fatto un tentativo solenne di stoppare la scissione si sparge tra i suoi fedelissimi verso sera. «Questo congresso facciamolo bene – è il messaggio che Renzi vuole lanciare alle minoranze – deve essere un confronto di idee, un modo per rafforzare la casa comune. Non deve essere solo una conta, trasformiamo la convenzione nazionale in un momento di dibattito programmatico serio». La prima cauta apertura che ricalca i tentativi di mediazione messi in campo in queste ore da Fassino e Martina, sulla scia di quanto proposto da Andrea Orlando in Direzione: dare spazio al confronto sulle tesi prima che alla sfida tra le persone. Il segretario non si ferma qui, ma apre all’ipotesi di allungare un poco la tempistica congressuale. «Facciamo discutere i circoli delle nostre idee», dice. Ma non è disposto ad accettare quanto chiede Bersani, cioè trascinarla fino all’autunno.
Fin dalla mattina l’ordine di scuderia ai suoi è che il congresso deve terminare prima delle comunali di giugno. All’ora di pranzo Franceschini confessa ad un amico la sua preoccupazione per una china drammatica che non sembra poter essere evitata. Si sparge la voce che Orlando abbia parlato la sera prima con Emiliano, per provare a evitare la scissione e lanciare un’operazione per ridisegnare i contorni politici del Pd con una presenza interna forte della sinistra, anziché uscire dal partito.
E se lo stesso Orlando non riesce a stringere un accordo con la minoranza che potrebbe costituire la sua base congressuale, sfuma di fatto pure l’ipotesi di un’eventuale sua candidatura antitetica a Renzi. Almeno questa è la considerazione che fanno i dirigenti Pd di fronte ad una geografia interna che sta per sgretolarsi e ricomporsi. Nessuno può prevedere nulla, anche se ora i seguaci di Franceschini, Orfini e Martina garantiscono che la maggioranza renziana in assemblea è blindata. «Ma ora le primarie con chi le facciamo?», è la domanda che sorge tra i renziani, preoccupati di una chiamata ai gazebo complicata dall’assenza di candidati forti e visibili. «Vedrete che Rossi non uscirà dal Pd e che Emiliano ci penserà bene», si rassicurano. Fatto sta che senza i tre sfidanti Rossi, Emiliano e Speranza e senza Orlando in campo il congresso sarà un’altra cosa.
Nella war room del leader si analizza già la gran mole di problemi che la scissione farebbe sorgere. Sarebbe un fattore destabilizzante: il voto prima dell’autunno più probabile; il governo con il Pd diviso in due gruppi parlamentari dovrebbe affrontare una nuova fiducia. E le giunte di Toscana e Puglia, rette da Rossi ed Emiliano, potrebbero saltare.
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