Queste le sue parole
Ottavio Bianchi ha rilasciato una lunga intervista al Corriere dello Sport:
Fermiamoci un attimo sul Napoli, mi racconta un po’ quell’esperienza del Napoli?
“
Al Napoli io non volevo andare perché conoscevo l’ambiente e sapevo anche, per esperienza vissuta, che noi, anche quando avevamo una grande squadra, non vincevamo mai. Lei conosce Roma e sa che anche a Roma c’è questa tendenza. L’anno prima il Napoli con Maradona per tre quarti di campionato aveva giocato per non retrocedere. L’anno dopo dunque era difficile giocare per vincere subito. Per vincere bisogna avere delle basi di lavoro e non crearsi alibi, se tu hai degli alibi a Napoli hai finito. Vai per la tua strada anche se la strada è in salita. A Ferlaino dissi che se voleva che lavorassi con lui, doveva sapere che io intendevo fissare delle regole e farle rispettare, con severità. Così è stato il primo anno: mi avevano chiesto di andare in Coppa e siamo arrivati subito terzi. L’anno dopo c’è stato il salto di qualità, abbiamo vinto lo scudetto e poi sono cominciate un po’ di beghe, come al solito. Non si è abituati a vincere, a Napoli, però sicuramente le mie stagioni sono state positive”.
Maradona com’era?
“Maradona è diverso da quello che dipingono. Quando lo prendevi da solo era un bravissimo ragazzo. In campo è inutile che lo dica io perché è una leggenda del calcio. Era bellissimo da vedere e da allenare. Parlano tutti del fatto che non si allenava ma non era vero perché Diego era l’ultimo a uscire, bisognava mandarlo via perché altrimenti restava ore per inventare le punizioni. E’ talmente appassionato del gioco del calcio che quando avrà ottanta anni avrà ancora voglia di palleggiare. Certo era circondato da un’attenzione, da una pressione che nessuno penso fosse in grado di sostenere. Fuoricampo non giudico nessuno, in campo era una gioia allenarlo”.
Si ricorda qualche episodio con Maradona divertente?
“Maradona aveva una capacità di palleggio individuale fuori dal mondo. Quando andavamo negli spogliatoi portavano il cestino con i limoni e lui cominciava a palleggiare con il limone. A me piaceva sfotterlo. Andiamo a San Siro e lui comincia a palleggiare e io dico vabbè, sono sempre le solite cose da circo che fai. La competizione per lui è la vita e allora mi ha sfidato. Io non potevo tirarmi indietro. Lui comincia a palleggiare e fa volare quel maledetto limone un numero impossibile, per noi umani, di volte. Io allora prendo questo limone e ho la fortuna che nella caduta gli do un tiro giusto e comincio a colpire sotto e poi continuo bene… Intanto i giocatori contavano i miei palleggi e alla fine, non so davvero come, ho battuto Maradona nella gara del limone. Allora ho fatto lo spavaldo, ho gettato lontano l’ultimo limone e gli ho detto “vedi, cominci a perdere con me”. Non l’avessi mai detto. Rivincita. Per anni mi ha sempre chiesto la rivincita. Con la rivincita avrei perso con lui cento volte su cento. Non gliel’ho mai concessa. Come mi giravo, lui dalla rabbia palleggiava il limone perfino con il tacco. E io facevo finta di non guardare”.
Perché andò via dal Napoli?
“I comportamenti di alcuni giocatori erano dei comportamenti molto particolari, dissi ai dirigenti “va bene io faccio l’allenatore, voi fate i dirigenti. Li chiamate, magari davanti a me, e chiedete spiegazioni”. Loro non vollero farlo. Io non posso condannare giocatori se non ho le prove ma solo per sentito dire e allora decisi di togliere il disturbo perché non ero più in grado di allenare come volevo, di far rispettare quelle regole che ci avevano portato a vincere per la prima volta nella storia di quella squadra e di quella città… Avevo la sensazione che la cosa mi stesse sfuggendo di mano anche perché le chiacchiere su certi giocatori erano molto pesanti. Non volevo condannare dei giocatori senza prove e allo stesso tempo non volevo vivere nell’incertezza”.
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