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Arriva l’estate e Putin torna all’antico ”gioco delle tre carti”

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E’ da giorni che diamo nota delle mosse di Putin che, seguendo lo sperimentato sistema di “agitarsi” e fare i suoi “blitz”, puntualmente, nei periodi “festivi” – estate o inverno che sia -, quando cioè l’attenzione generale è più rilassata e/o distratta, si sta muovendo come un elefante in una cristalleria su tre distinti fronti (UcrainaSiria e Turchia), tutti altamente importanti ed indicativi del suo amarcord della vecchia madre Russia o, comunque, della sua volontà di provare a cambiare l’assetto delle basi internazionali attualmente in essere e poi, chissà, magari qualche mossa va veramente in porto anche oltre le aspettative e ci guadagna qualcosa da un qualche nuovo status quo che si venisse a creare e che sarebbe poi “delicato” districare (annullare) dalle altre nazioni europee e/o USA senza contare poi che comunque, come nel “gioco delle tre carte”, alla fine a vincere è sempre il “baro” e lui vincerà – se non altro, come annota Molinari –  l’immagine che farà risaltare di un Occidente lacerato dai disaccordi su migrazioni e terrorismo, indebolito economicamente e in ultima analisi carente di leadership perché a prevalere sono i movimenti di protesta, come dimostrato dal referendum su Brexit

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i questo “gioco delle tre carti” di Putin ne discute anche Molinari nel suo commento di oggi su la Stampa. Leggiamolo:

Il grande gioco di Putin: strategia su tre fronti MAURIZIO MOLINARI

Le scintille lungo il confine con l’Ucraina, la cruenta battaglia di Aleppo e la riconciliazione con la Turchia di Erdogan descrivono la determinazione con cui Vladimir Putin sta costruendo attorno alla Federazione russa un nuovo ambizioso assetto internazionale.

È un’offensiva che si sviluppa su tre fronti.

Primo: le fibrillazioni con Kiev sui confini della Crimea, incluso l’invio di missili S-400, servono a far sapere all’Europa dell’Est che Mosca resta protagonista della regione, determinata a tutelare i diritti delle popolazioni russofone, per nulla intimorita dal dispiegamento di truppe Nato lungo i propri confini deciso al recente vertice di Varsavia.

Secondo: l’intensificazione dell’offensiva di Aleppo, con i pesanti raid contro le aree in mano ai ribelli islamici anti-Assad, descrive la volontà di far prevalere il regime del Baath nella guerra civile, ipotecando la gestione della transizione a Damasco ovvero i futuri equilibri fra i grandi rivali del Medio Oriente, Iran ed Arabia Saudita.

Terzo: la riconciliazione con Recep Tayyip Erdogan, interlocutore indispensabile sulla Siria perché sostiene i ribelli islamici, consente di identificare nella Turchia un partner economico e politico nel più vasto scacchiere dell’Eurasia a dispetto della sua appartenenza all’Alleanza Atlantica. Se guardiamo più da vicino a questi fronti ci accorgiamo che vedono ovunque Putin intenzionato a ridurre in maniera sensibile l’influenza degli Stati Uniti: in Ucraina vuole fiaccare la credibilità di Washington come garante dell’Europa dell’Est, in Siria punta a dimostrare più capacità militare contro i jihadisti rispetto alla coalizione di oltre 60 Paesi guidata da Obama ed in Turchia mira ad incrinare il legame di Ankara con la Nato, sfruttando a tal fine anche l’irritazione di Erdogan per la presenza in Pennsylvania del presunto regista del fallito golpe militare del 15 luglio scorso, Fethullah Gulen.

Ciò che giova a Putin in questo Grande Gioco, il cui epicentro è nel Mediterraneo Orientale, è l’immagine di un Occidente lacerato dai disaccordi su migrazioni e terrorismo, indebolito economicamente e in ultima analisi carente di leadership perché a prevalere sono i movimenti di protesta, come dimostrato dal referendum su Brexit. A tratteggiare l’ambizione di Putin di porre le basi di un assetto internazionale non più incentrato sull’Occidente è Fyodor Lukyanov, apprezzato analista moscovita, secondo il quale «Putin ed Erdogan si sono sentiti entrambi emarginati dai progetti della Grande Europa dopo la Guerra Fredda» e condividono una volontà di riscatto che, secondo il politologo russo Maxim Suchov, include la «riscoperta dell’Eurasia» per via degli interessi convergenti in Paesi come il Kazakhstan, l’Azerbaigian e l’Armenia.

Più in generale Putin sta costruendo una rete di legami privilegiati con nazioni rette da modelli politici diversi dalle democrazie occidentali – dalla Bielorussia alla Turchia, dall’Egitto all’Iran fino alle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale – sovrapponendo investimenti energetici, presenza militare e proiezione di un «soft power» russo assai efficace, come dimostra la popolarità della tv «Russia Today» nel modo arabo. Il Cremlino sa tuttavia che questa fase di espansione strategica rischia di incepparsi con l’uscita di Obama dallo Studio Ovale: chiunque sarà il successore avrà un approccio meno remissivo sulla scena internazionale e Mosca teme in particolare il successo di Hillary Clinton perché la sua candidatura esprime la volontà dell’establishment bipartisan di Washington di riconquistare il terreno perduto in questi anni.

Ciò che Putin vuole scongiurare è il ripetersi di uno degli errori più gravi commessi da Mosca durante la Guerra Fredda ovvero quanto avvenne nel 1980 allorché l’America di Jimmy Carter sembrò così indebolita dalle crisi in Iran, Afghanistan e Nicaragua da far pensare al Cremlino di averla piegata quando invece la vittoria nelle urne di Ronald Reagan cambiò il corso della Storia, determinando l’esito opposto. Ecco perché Putin resta all’offensiva ed il profilo della Russia è destinato a crescere un po’ ovunque, anche nel nostro Mediterraneo Centrale, come dimostra la scelta di opporsi senza mezzi termini ai raid Usa su Sirte sostenendo le posizioni del generale Khalifa Haftar, avversario del governo di Fayez Sarraj a Tripoli.

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