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Castellammare di Stabia

Il Rosatellum è davvero un buon partito?

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E LEGGI elettorali sono come i matrimoni: per scoprire chi hai sposato, devi dormirci ogni notte sotto le stesse lenzuola. E il Rosatellum, è davvero un buon partito? O il quadripartito che l’appoggia finirà per lasciarci a mal partito? Lo sapremo presto, ce ne accorgeremo alle prossime elezioni, ammesso che questo sposalizio verrà celebrato anche in Senato, dopo il sì pronunziato a denti stretti dalla Camera. Ma il passo d’oca con cui la giovin creatura incede verso l’altare non può che promettere notti turbolente. Proteste in piazza, schiamazzi nell’aula di Montecitorio, scontri arroventati nel Paese: se ogni legge elettorale apre una nuova stagione della democrazia, stavolta è inverno, non certo primavera.

Ecco, c’è un vizio di metodo, prima ancora che di merito, in questa vicenda normativa. C’è un esercizio muscolare, c’è un sopruso degli uni verso gli altri — e siamo noi, gli altri. Perché quando viene confiscata la libertà del Parlamento ne soffre la libertà di tutti i cittadini. E perché le forzature nel metodo si riflettono sul merito, sui contenuti della nuova disciplina elettorale, impedendo di correggerne quantomeno le storture più vistose.

Il voto  disgiunto, per esempio, che il Rosatellum nega agli elettori. O le pluricandidature, che suonano come un pluringanno. Ma l’inganno è già nella parola con cui è stato sottomesso il Parlamento: fiducia. «Sta’ attento a chi darai fiducia due volte», diceva García Márquez. Il governo Gentiloni l’ha chiesta per tre volte. E allora questa parolina gentile diventa minacciosa, in un gioco di specchi deformanti in cui nulla è più come ci appare. Anzi: gli specchi sono sette, come le code del diavolo.

Primo: di regola, la questione di fiducia viene posta dall’esecutivo su un provvedimento che esso stesso reputa centrale per sviluppare le proprie linee programmatiche. Tuttavia il Rosatellum muove da un’iniziativa parlamentare, non governativa. E oltretutto l’esecutivo in carica, presentando il suo programma, aveva promesso di tenersi fuori dalla riforma elettorale.

Secondo: la fiducia è un espediente tecnico teso a superare l’ostruzionismo delle opposizioni. Qui invece a far paura erano i mal di pancia della maggioranza, non delle minoranze.

Terzo: lo schieramento che sostiene il Rosatellum può incontrare qualche problema di numeri a palazzo Madama, però a Montecitorio contava su oltre il 70% dei deputati, grazie al premio di maggioranza del Porcellum, che ha ingrassato le fila del Pd. Perciò — secondo logica — la questione di fiducia andava posta casomai al Senato, non alla Camera. Ma logica e politica non vanno d’accordo; non a caso Aristotele ne trattò in due opere distinte.

Quarto: la maggioranza che sostiene il Rosatellum è ben più larga della maggioranza governativa.
Comprende infatti Lega e Forza Italia, i cui parlamentari sono dovuti uscire dall’aula, per appoggiare il governo senza votare a favore del governo. Equilibrismi che riesumano i fasti del 1976, quando il gabinetto Andreotti III si reggeva su un ampio fronte d’astensioni. Dunque la legge elettorale che dovrebbe trasportarci nel futuro ci fa rimbalzare nel passato, ai governi della “non sfiducia”.

Quinto: il voto di fiducia dovrebbe costituire un’eccezione, un’extrema ratio. Invece il governo Gentiloni ne ha già chiesti 22, con la media d’un paio al mese. E in questa legislatura siamo a quota 98, superando le 96 fiducie della legislatura scorsa. Evidentemente la fiducia dei politici è un sentimento nevrotico e insaziabile, che si nutre di se stesso. Difatti è in vista l’ultima reincarnazione: dopo la fiducia di destra (il Rosatellum), quella di sinistra (sullo Ius soli).

Sesto: ogni questione di fiducia reca un altolà: o tu (Parlamento) fai ciò che ti chiedo, oppure io (governo) mi dimetto. Ma Gentiloni si dimetterà comunque a breve, perché siamo all’ultima curva della legislatura. Più che una minaccia, si direbbe una promessa.

Settimo: il presidente del Consiglio. Era il più popolare fra i politici italiani, e anche il più stimato. Ma da quando ha messo la fiducia su questa brutta legge elettorale, si è imbruttito pure lui. Da qui l’ultima contraddizione: Gentiloni ha incassato la fiducia, ma ne ha guadagnato un moto di sfiducia. D’altronde anche noi ci sentiamo sfiduciati e un po’ depressi, senza ottimismo, senza nemmeno troppa voglia di sperimentare nell’urna la nuova legge elettorale. Giacché in primavera verremo chiamati, a nostra volta, a un voto di fiducia: sul sistema dei partiti, sulla democrazia italiana per come si va configurando. Una democrazia che s’affida alla fiducia perché non ha più uomini fidati.

vivicentro.it/editoriale
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repubblica/La stanca democrazia di Michele Ainis

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