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Castellammare di Stabia

Sotto il vestito

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Da qualche giorno, a Istanbul, chi prende in mano un vestito negli spacci di alcune catene di abbigliamento ci trova dentro un biglietto: “Il capo che stai per acquistare è stato realizzato da me, ma non sono stato pagato per questo.” Si tratta della originale protesta degli ex operai tessili della Bravo, una delle tante aziende subappaltatrici a cui i grandi marchi mondiali, non solo dell’abbigliamento, delegano il lavoro sporco di sottopagare i dipendenti per poi licenziarli in tronco senza neanche prendersi il disturbo di pagare loro gli arretrati.

Il meccanismo di questa caricatura di capitalismo, che ai veri liberali fa venire il voltastomaco, è perverso ancorché supinamente accettato dal pensiero unico come ineluttabile. Funziona così. Poiché i consumatori impoveriti possono ormai permettersi solo prodotti a basso costo, per abbattere i prezzi si riducono in tutto il mondo i salari dei lavoratori, che si impoveriranno ancora di più e, come consumatori, potranno permettersi solo prodotti dai costi ancora più bassi, per realizzare i quali sarà necessario ridurre ulteriormente i salari di chi li fa. Siamo all’avvitamento del sistema. Come recita l’articolo unico della Costituzione Globale, il lavoro non è più un diritto, ma un costo. Da abbassare di continuo, fino all’azzeramento finale tramite robot.

Nel frattempo è già stato azzerato dal dibattito pubblico: c’è forse ancora un politico di prima fila che ne parla? Eppure sarebbe l’unico argomento in grado di riportare alle urne i tanti impoveriti a cui non resta che nascondere biglietti sotto il vestito.

di Massimo Gramellini / Sotto il vestito / lastampa
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