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Castellammare di Stabia

Scarium: frammenti della memoria su via Torrione a Forio d’Ischia

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a Storia dell’isola d’Ischia, edita nel 1867 da Giuseppe D’Ascia, si presta al teatro itinerante e suggerisce ‘Scarium’. Un format alla seconda edizione il cui fine è portare alla ribalta storie neglette, coinvolgendo gli spettatori in un percorso storico – geografico attraverso una Forio che non esiste più. La visita teatralizzata di via Torrione, realizzata dalla compagnia “Uomini di Mondo” in collaborazione con le associazioni “Actus Tragicus”, “Radici” e la Banda Musicale Città di Forio, batte le tappe snodandosi attraverso la stradina che dal centro porta al mare e allo scomparso cantiere navale.

Nella Sala della Primavera della Reggia di Caserta fa bella mostra di sé un dipinto del “vedutista “ di corte, Jacob Philipp Hackert che, durante il Regno delle due Sicilie il “fotografò” (per un compenso 500 di zecchini) una panoramica del porto di Forio (vedi foto in alto). A ponente s’intravede lo scaphium, l’invaso ove prendevano forma gli antichi velieri che commercializzavano quei vini, cui i polifenoli attivi contenuti nell’humus vulcanico dei nostri vigneti conferivano una speciale flagranza.

Lo Scaphium, mutato prima in Scarium e quindi Scaro diede nome all’attuale via del Torrione.

Frammenti di memoria custoditi e, finalmente, rivelati da un’attenta analisi eseguita sul materiale fornito in parte dallo storico foriano Giuseppe D’Ascia, in parte dalle tradizioni popolari, ma coagulati da un comune denominatore: la voglia di diversificare l’offerta turistica e donare a ospiti e residenti l’opportunità di conoscere un pezzo della nostra storia.

Il Virgilio che guida gli spettatori nell’arena è Pierpaolo Mandl, giovane laureato in storia dell’Arte, che ha scelto di ricercare nel proprio territorio un lavoro che lo entusiasmi e, indossando le vesti di Giovanni Verde, allievo dell’insigne scultore che dimorò nel Torrione, e che fu poi nominato primo Direttore del Museo Civico Giovanni Maltese, introduce le scene che via via s’intrecciano e ricordano i personaggi: Giovanni Maltese, Caterina D’Ambra, la popolana Tolla, Rachele Guidi Mussolini e Don Pietro Regine.

Valerio Buono, regista e interprete di Giovanni Maltese, l’artista ribelle di Forio che per trent’anni abitò in enfiteusi, fino a riscattarlo, il Torrione, la più importante delle torri anti saracene edificate nel paese, ne enfatizza la vivacità polemica e la tenace opposizione alla classe dirigente locale di fine ‘800. Seconda tappa è la gipsoteca al piano superiore, dove sono esposte le numerose opere di quest’eclettico artista foriano.

Valentina Lucilla Di Genio è Caterina D’Ambra. La vicenda di questa donna è uno degli episodi più interessanti della Storia del D’Ascia.

La vendetta di una donna

«Un giorno gli armigeri perlustrando per le campagne di Monterone, anche in Forio, infeste da malviventi, videro in un vicoletto detto del Carrubio che un uomo nello scovrirli si pose a fuggire; uno di essi fu lesto a sparargli appresso, lo colpì, e cadde – Era un sordo-muto!……. detto il muto di casa d’Ambra, perché sciocco, non perché reo, al vedere gli armati soldati, che dal volgo chiamansi gli sbirri, avea preso la fuga. Questo sordo-muto avea una sorella chiamata Caterina d’Ambra, la quale ad un coraggio che trascendea in fierezza, ad un animo dispettoso e vendicativo, accoppiava un affetto straordinario verso questo fratello, ed un cuore risoluto ad ogni  straordinaria e pericolosa impresa. L’affetto per la vittima irritò Caterina, per cui giurò di far pagare, alla brigata, a caro prezzo il sangue sparso del suo amato fratello. Aspettò la sera di un solenne dì festivo, sapendo, che, quella sbirraglia priva di disciplina e di educazione, non si sarebbe in tale serata ritirata in caserma, senza essersi avvinazzata da ridurre branco di animali.

Venuto il giorno desiderato, Caterina approfittava dell’universale baccano della festa (baccano ed orgia in cui vanno a consistere le festività religiose per la maggior parte de’ cattolici), perché gli stravizzi della giornata disertavano più presto le strade, in quel paese rurale, dagli ubbriachi e stanchi operai; per lo che, scorsa appena la prima metà della notte, si unì ad una sua cugina di pari indole coraggiosa, e, seguito da tutto il parentado, che ascendevano a circa quarant’uomini risoluti, si portò ad assalire gli armigeri nella loro stessa caserma, posta al lido del mare, verso la spiaggia di Monticchio, propriamente accosto la porta del paese. Era la caserma composta di unica stanzuccia a pianterreno, che serviva per corpo di guardia e per dormitorio. Gli sbirri sopraffatti dal vino giacevano sul tavolato come maiali, e i loro corpi sarebbero sembrati inanimati, se non avessero russato in modo che lo strepito si sentiva da fuori, e servì ad avvertire la Caterina, che il momento era proprizio ai suoi disegni. Gli uomini ben armati, chi di ferro, chi di schioppo, chi di strumenti rurali, chi munito di zolfo, e polvere, ed altri portanti scale, legna, zappe e pali di ferro, tutti istrutti del proprio incarico della assegnata azione, si apprestarono alla caserma. Caterina fa piazzare le scale e coll’altra compagna monta sul tetto, da altri fa occupare il loggiato, che sporgeva sul mare sottoposto, verso ponente, per togliere l’uscita ai prigionieri in quel lato, nel caso che volessero trovare uno scampo dalla parte del mare; lascia altra mano di armati a guardia della porta d’entrata per impedir la fuga o la resistenza. Sul tetto della casa vi esisteva il coverchio del condotto del fumo che comunicava al focolare, ch’era nella stessa stanza: Caterina lo toglie, ordina che le portino le legna, il zolfo e la polvere: si accorge che il loggiato è coverto da borre e fascine di mirti già secche, trova queste legna più accendibili, colle sue mani, aiutata dalla cugina, ne afferra una brancata; le accende e le gitta pel cammino sul focolare; su quelle versa il zolfo, la polvere, e poi altre legna quasi fresche, onde accrescano fumo da superar la fiamma. Il fumo è densissimo; è soffocante; il fuoco è scottante; i birri ubbriachi marci non possono sfuggire la fatale conseguenza! Di dodici, uno si salvò, perché meno ebbro degli altri, e si salvò mettendo la testa nel luogo più schifoso ch’ivi si trovava. La Caterina assicurata del colpo, caccia dall’affannoso petto un sospiro troppo eloquente: atteggia il labbro ad un riso d’inferno, che indica «La mia vendetta non ha fallito», scende dal tetto colle mani scottate, col volto annerito dal fumo, coi capelli sconvolti, colle vesti mezze bruciate, parea una Megera! Dalla chiesa vicina sonano i rintocchi del SS. Viatico per un moribondo, il popolo accorrerà alla chiamata, possono gli assalitori essere scoverti, arrestati; per cui Caterina scende in fretta dal tetto, ordina la ritirata, e tutti abbandonano quegl’infelici in preda ad una disperata morte, e si vanno a rinselvare; a prendere il posto fra i banditi ed i facinorosi. La Caterina si chiuse nella Chiesa di S. Lucia luogo di asilo per le leggi del tempo, e lì per dodici anni rimase ricoverata!

E quando carca di anni distesa sul letto di morte, la sua nuora Lucia Nicolella la eccitava a cercar perdono a Dio per aver fatto andare undici anime all’inferno, dessa come se fosse stata scossa da una molle di acciaio infuocato, spalancava i semi chiusi occhi, si animava di vita febbrile; e dopo ottant’anni da quell’avvenimento, poiché si morì di anni cento, e pria di compier vent’anni avea fatto quella bravura, sempre vivo il fuoco delle due passioni, che ve la spinsero, alimentando nel suo animo, rispondeva – Se di coloro ne avessi un dito me lo mangerei in due panelle; mi uccisero un povero fratello! – Che dici di cercar perdono a Dio? – Sono ancora dolente che uno se ne salvò!

Questa fu l’autentica risposta di quella donna che visse e morì da fervida cristiana-cattolica?

Tanto era potente allora la religione della vendetta? Si!… L’ignoranza e la barbarie l’avevano creata, e la mantenevano l’arbitrio e la feudalità. »

La monatta Tolla ci ammonirà con le sue funeste previsioni la settimana prossima.


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