Il blitz diplomatico di Emmanuel Macron disegna il futuro della Libia, riunendo a Parigi il presidente del Consiglio presidenziale di Tripoli Fayez al-Sarraj e il leader ribelle Khalifa Haftar. L’intesa si basa su tre punti: cessate il fuoco, impegno a fermare i flussi di migranti e garanzia sulle elezioni nella primavera del 2018.
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Le buone notizie per la Libia spiazzano l’Italia, tagliata fuori senza cerimonie dall’incontro malgrado l’impegno profuso negli ultimi dieci mesi”, commenta Stefano Stefanini.
Una doccia fredda per Roma
Da Parigi, le buone notizie per la Libia spiazzano l’Italia. La mediazione francese fra Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar può segnare una svolta nella crisi; come tutti gli accordi, i fatti conteranno più delle parole. Certo è un brusco risveglio per l’Italia, tagliata fuori senza cerimonie dall’incontro malgrado l’impegno profuso in Libia negli ultimi dieci mesi (siamo l’unico Paese europeo e occidentale ad aver riaperto l’ambasciata).
Le parole sono quelle giuste: cessate il fuoco e elezioni in primavera. L’attuazione sarà problematica. Non solo dal dire a Parigi al fare a Tripoli (e a Tobruk) c’è di mezzo il proverbiale mare. I due uomini forti della Libia non controllano tutte le varie milizie, fazioni, tribù sul terreno. Resta di positivo che l’accordo fa giustizia delle rispettive pretese di legittimità (internazionale di Al-Sarraj, elettorale del parlamento di Tobruk che sostiene Haftar) in favore di un reciproco riconoscimento delle principali forze in campo.
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E’ realpolitik. Se poi dell’avvio di questo processo politico beneficerà anche il controllo delle porose frontiere libiche e dei flussi migratori, non possiamo che rallegrarcene. Per Roma il filtro all’immigrazione è una massima priorità. A caval donato non si guarda in bocca.
Ciò nonostante la giornata di ieri resta un boccone amaro per l’Italia. Il nuovo presidente francese si è praticamente impossessato, dal nulla, della gestione diplomatica della crisi libica; le due parti hanno accettato senza battere ciglio il nuovo ruolo di Parigi; l’Italia, a quanto risulta, non è stata né invitata né consultata, se non tardivamente. Questo è avvenuto mentre il ministro Jean-Yves Le Drian era invitato d’onore alla Conferenza degli Ambasciatori italiani, in corso in questi giorni, e alla vigilia del passaggio da Roma anche dello stesso presidente libico, Al-Sarraj. Entrambi si profonderanno in spiegazioni poco convincenti.
Il cambio di scenario e la rapidità con cui è avvenuto comportano tre considerazioni. La prima riguarda la Libia. La linea italiana sulla Libia, ribadita anche il giorno prima dal ministro Alfano, era sostanzialmente di appoggio alle Nazioni Unite che hanno riconosciuto in Fayez al-Sarraj il legittimo presidente della Libia. A più un anno di distanza dal suo insediamento a Tripoli questa legittimità internazionale mostra la corda.
La realtà è quella di un Paese diviso con una spaccatura principale fra Tripolitania e Cirenaica. A Tobruk il parlamento rivendica la legittimità interna di essere stato eletto e il generale Haftar ha il contro-potere militare, nonché l’appoggio di Egitto (fondamentale) e di altre potenze esterne, fra cui Russia e Francia. In effetti anche l’Italia aveva sensibilmente modificato la posizione iniziale facendosi promotrice del dialogo fra le parti libiche, ma l’iniziativa di Emmanuel Macron ci ha scavalcato mettendo le due parti sullo stesso piano. Sarà difficile per Roma rimanere abbarbicata all’inefficace linea Onu. Il nostro ruolo in Libia resta forte: proprio per questo va aggiornato al nuovo scenario. La seconda riguarda la politica estera francese. Con Macron all’Eliseo la Francia torna alla tradizionale politica internazionale assertiva e tutto campo che François Hollande aveva messo in sordina. Il nuovo presidente è senz’altro europeista, ma ha ben presente l’obiettivo di ridare alla Francia un ruolo trainante – non solo in Europa, vedi l’accoglienza riservata a Donald Trump il 14 luglio. In ambito Ue questo significa puntare sull’asse con Berlino e riequilibrare l’inferiorità economica nei confronti della Germania con il dinamismo politico e le capacità militari. E’ inevitabile che questo tentativo di bilanciamento porti la Francia ad affacciarsi sul Mediterraneo occidentale.
Infine, nei rapporti internazionali conta la solidità del quadro interno. Questo è quanto oggi manca a Roma. La nostra voce è più debole; quella francese senza timidezze. Macron cavalca l’onda di una doppia vittoria elettorale. In questo momento è in una posizione più forte di qualsiasi altro leader europeo o occidentale: Donald Trump ha la palla russa al piede, Theresa May un governo di minoranza che deve negoziare Brexit, Angela Merkel è relativamente tranquilla ma non può distrarsi dalla campagna elettorale. Non si può rimproverare al governo Gentiloni di aver trascurato la Libia dove l’Italia è riuscita a mantenere, senza danni, una costante presenza. Tuttavia la fragilità della politica interna ha un prezzo e l’Italia lo sta pagando.
Dall’incontro di Parigi l’Italia incassa la possibile svolta positiva della crisi libica. La discesa in campo francese può anche condurre a un maggiore impegno della latitante Unione europea; non sarebbe mai troppo tardi. Ne traiamo però una lezione: la Francia del nuovo, giovane, presidente è sicuramente un partner per il rilancio europeo ma anche un concorrente sul piano degli interessi nazionali. Eni e Total non vanno sempre d’amore e d’accordo pur avendo interessi comuni (ad esempio prezzo degli idrocarburi, rapporti con la Russia); perché aspettarsi un rapporto completamente diverso fra Roma e Parigi?
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lastampa/Una doccia fredda per Roma STEFANO STEFANINI
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