Veneto e Lombardia vincono la scommessa dei referendum per l’autonomia. Prevale la protesta: l’insoddisfazione porta alle urne il 57% degli aventi diritto in Veneto e circa il 40% in Lombardia. Ai seggi va in scena la rivolta fiscale: “Siamo stanchi di essere munti da Roma”, dicono gli elettori. Si dovrà aprire un dialogo con il governo centrale ma per arrivare a nuove competenze e maggiori risorse per le regioni ci vuole il voto del Parlamento, ed è probabile che se ne occuperanno nella prossima legislatura.
In Veneto una valanga per l’autonomia. Lombardia, l’affluenza si ferma al 40%
Plebiscito per i sì. Zaia sfonda il quorum e sfiora il 60%, venti punti in meno per Maroni
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iù faticosa la corsa in Lombardia. Il referendum è solo consultivo. Non c’è il quorum. Il mandato al Governatore per battere cassa a Roma è meno incisivo. Il Governatore Roberto Maroni che già pensa al bis a Palazzo Lombardia per l’anno prossimo non si arrende, malgrado abbia preso molto meno del 43% che lo aveva portato a Palazzo Lombardia. Si disce soddisfatto del voto elettronico ma a a mezzanotte ci sono solo le proiezioni: «Siamo sopra il 40%. Ringrazio i lombardi che hanno votato al 95% per il sì contro il 3% per i l no. Lombardia e Veneto possono fare la battaglia insieme. Sono 5 milioni di voti che metteremo sul tavolo con il governo».
Vincono tutti e perde nessuno in questa sarabanda elettorale di fine ottobre che forse cambia la politica italiana. Matteo Salvini esulta: «Più di 5 milioni di persone chiedono il cambiamento. Meno sprechi, meno tasse, meno burocrazia. È una vittoria di chi vuole cambiare alla faccia di Renzi che invitava a stare a casa». I 5Stelle guardano a sostanza e metodo: «Vittoria della democrazia diretta. Ci vogliono più poteri alle regioni e servizi meglio tarati sui cittadini». L’unione fa la forza. Lombardia e Veneto insieme rappresentano molto e molto possono chiedere a Roma. Magari non quello che sognava un tempo il vecchio Umberto Bossi: «Il referendum è l’unica possibilità che abbiamo. Ma il mio sogno resta l’indipendenza». Di sicuro non succederà come in Catalogna, tirata in ballo assai a sproposito: dai sostenitori come chimera, dai detrattori come spauracchio. Il referendum è previsto dalla Costituzione. L’emendamento lo volle il centrosinistra. Ma oggi il Pd su questo ha i mal di pancia. Matteo Renzi minimizza: «Il referendum non porterà a una divisione. Ma vanno ridotte le differenze tra Nord e Sud». Il ministro Maurizio Martina dopo aver paventato improbabili secessioni, schifa la consultazione: «Solo uno spreco di tempo e danaro». Paolo Grimoldi della Lega in Lombardia lo impallina: «Stiamo zittendo il Pd che aveva invitato ad astensione».
Con questi risultati, su cui si assicurano litigi per giorni, da oggi toccherà anche al Pd fare i conti al suo interno. I sindaci di centrosinistra della Lombardia si sono espressi da subito per il sì. In testa quello di Bergamo Giorgio Gori. Non a caso la città dove si è votato di più. Anche Giuseppe Sala a Milano aveva detto sì. Poi ha preferito rimanere a Parigi a un summit sull’inquinamento e non ha votato. Col risultato che Milano è la città fanalino di coda delle affluenze. Mentre Roberto Maroni si toglie lo sfizio di punzecchiarlo a distanza: «Certo che uno sforzo poteva farlo…». Pure in Veneto il partito di Renzi si è schierato col sì. Simonetta Rubinato, parlamentare del Pd dopo essere stata sindaco di Roncade vicino a Treviso, ha scritto pure un libro sulle ragioni dei referendari: «Votare sì era anche un modo per riavvicinare i cittadini in questo momento di distanza di presa dalla politica». Mentre Laura Puppato aspetta il superamento della soglia minima per cantare vittoria: «Il quorum è stato raggiunto anche grazie all’indicazione del Pd del Veneto. La Lega non pensi di intestarsi questa vittoria». A Fratelli d’Italia il referendum non era piaciuto. Giorgia Meloni non snobba le urne: «Non sono stati un plebiscito. Adesso si facciano le riforme insieme coniugando presidenzialismo e federalismo».
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