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Castellammare di Stabia

Riti e rischi della politica giallo-verde

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a tormentata gestazione del governo giallo-verde ci dà almeno tre indicazioni importanti sul modo in cui stanno mutando le forme della nostra vita pubblica. La politica, innanzitutto, è ridotta sempre di più alla compilazione di liste della spesa: lunghi elenchi di provvedimenti avulsi da un disegno complessivo che li metta in un ordine di priorità, e spesso incompatibili l’uno con l’altro. Già i programmi elettorali di Lega e M5S avevano queste caratteristiche, ma erano animati per lo meno da uno spirito di fondo – sovranista nel primo caso, comunitarista nel secondo. Nell’accordo di governo queste due anime sono in buona misura evaporate, e come residuo secco è rimasta – appunto – la lista della spesa.

Il modello di democrazia vagheggiato dal Movimento funziona esattamente così, del resto: i cittadini decidono sui singoli provvedimenti, i portavoce eseguono. Matteo Salvini ha ripetuto molte volte che non gli interessano le categorie politiche astratte, la destra e la sinistra, ma le cose da fare. E poi, a ben vedere, l’archetipo di questo modo di far politica non è nuovissimo: il contratto con gli italiani firmato da Berlusconi a «Porta a Porta» nell’ormai lontano 2001. Contratto che però, poiché conteneva soltanto cinque punti, restava almeno circoscritto e controllabile.

Ma bene! – si dirà. Non ci siamo forse lamentati per decenni della vacuità dei discorsi politici? Non abbiamo chiesto a gran voce che si parlasse finalmente delle cose concrete che interessano alla gente? Certo. Sennonché, per sfuggire all’astrattezza dei grandi proclami ideologici del Novecento, abbiamo finito per smarrire anche il senso minimo della politica come progetto coerente – come idea di Paese. E ci ritroviamo così con un accordo di governo che promette la flat tax e il reddito di cittadinanza: provvedimenti incompatibili non soltanto per ragioni di bilancio, ma perché appartengono a due modi radicalmente diversi di pensare il rapporto fra lo Stato e il cittadino.

Dal processo di formazione del governo, in secondo luogo, emerge l’ansia costante di azzerare lo spazio fra eletti ed elettori. O meglio: di mostrare che quello spazio è stato azzerato. L’accordo è stato sottoposto al voto dei militanti pentastellati, e lo sarà a quello dei leghisti. Non solo: a maggior garanzia dei cittadini, che non si sentono più tutelati dalla politica ma semmai dal diritto, viene presentato come un documento giuridicamente vincolante – benché ovviamente non lo sia. Come per il contratto di Berlusconi, di nuovo. Anche in questo caso è stato il Movimento a dettare la linea. E gli altri partiti sono stati costretti ad adeguarsi: la Lega, da ultimo; ma anche nel Partito democratico s’era ipotizzato di sondare la «base» sull’ipotesi di accordo col M5S.

Di bene in meglio! – si dirà ancora. Non ci siamo forse lamentati per anni della frattura fra governanti e governati? Eccola risolta. Sennonché, quella frattura non può certo essere richiusa con la lista della spesa. Poiché contiene innumerevoli provvedimenti per decine e decine di miliardi di euro di costo, e poiché è del tutto ignara di priorità e compatibilità, quella lista in realtà non vincola affatto il ceto politico. Con buona pace della forma pseudo-giuridica e del voto dei militanti dell’un partito e dell’altro, chi governa conserverà la libertà piena di decidere se, quando, e in che misura fare che cosa. Nella sostanza il contratto non vale nulla, insomma: è puro marketing.

E questo è il terzo e ultimo insegnamento che ci dà la gestazione del governo giallo-verde: la vera frattura non è più quella fra governo e governati, ma quella fra le parole e i riti della politica da un lato, la realtà dall’altro. Fino a quando, naturalmente, la realtà non deciderà di ripresentarsi in tutta la sua durezza.

GIOVANNI ORSINA/lastampa

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