È
difficile non vedere la regia di Vladimir Putin dietro l’annunciato incontro tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill.
Se infatti il gesto del pontefice romano non è sospettabile di ingerenze temporali esterne, al contrario è impensabile che il Patriarca di tutte le Russie si sia deciso allo storico passo senza il consenso del Cremlino.
E probabilmente molto di più. Che poi il tutto avvenga a Cuba, aggiunge altra valenza simbolica e politica non trascurabile.
Il passo di riconciliazione tra le chiese di Roma e Mosca, atteso almeno dalla caduta dell’Urss, avrebbe dovuto logicamente compiersi, se non nella capitale russa, in qualche monastero dell’Est, a metà strada, dove davvero si sarebbe potuta allestire anche scenograficamente la riconciliazione di un doppio strappo storico: prima lo scisma, poi i settant’anni di ateismo comunista. Questo avrebbe voluto dire incontrarsi da qualche parte in terra d’Ucraina, dove pure avvenne – secondo storia e mito, così coltivato da Putin – intorno all’anno Mille il battesimo della «Santa» Russia. Ma l’evocazione stessa dell’Ucraina fa capire che l’ipotesi era insostenibile. Dunque Cuba, attraverso la mediazione – vera? posticcia? – di Raul Castro, luogo che da improbabile diventa invece probabile perché il pontefice non è più un polacco intagliato nel marmo dell’anticomunismo, ma un pastore venuto da quella parte del mondo e che ad essa continuamente si rivolge.
Lo sfondo occasionale di questo incontro, come ieri è stato detto a Roma e Mosca dai due portavoce, è la difesa dei cristiani nella crisi mediorientale, in Siria e Iraq, oggi il primo punto dell’agenda internazionale. In Siria la Russia è un attore pienamente in campo: papa Francesco trova dunque un alleato non neutrale. È pur vero che la missione della Chiesa è universale e come tale in grado di purificare anche il supporto più interessato. Ma la Russia è la Russia e a distanza di due anni dalla crisi ucraina che ha segnato l’isolamento del Cremlino e il ritorno a un clima di guerra fredda con sanzioni e contro-sanzioni e una effettiva guerra calda mai davvero conclusa nel Donbass, l’annuncio dell’incontro tra Francesco e Kirill è oggettivamente una clamorosa riapertura a Putin. Ed è ora lecito immaginare che ne seguiranno altre perché il fronte delle sanzioni si è largamente indebolito e le pressioni del mondo economico sui governi occidentali per la riapertura del mercato russo sono fortissime.
Ma il disegno di Putin è ancora più ambizioso, ed è quello di diventare un punto di riferimento per la cristianità, addirittura il difensore della cristianità per il mondo occidentale laddove questa è in crisi. Gli ambienti ultraconservatori francesi già lo considerano tale, una specie di araldo dell’onda antimodernista che si è espressa nelle «manif pour tous», le manifestazioni contro il matrimonio omosessuale. Un personaggio come Philippe de Villiers, ex sottosegretario di un governo Chirac dell’86, lui stesso candidato alle presidenziali, ma a lungo emblema di un «souveranisme» nostalgico e marginale ma vivo e oggi sostanzialmente collaterale al movimento della Le Pen, in un libro di memorie («Le moment est venu de dire ce que j’ai vu», ed. Albin Michel) uscito a fine anno ha raccontato il suo incontro in Crimea con Putin. Gli accenti sono colorati («Lo zar è tornato») ma la sostanza politica è impressionante. Scrive de Villiers: «Ormai la Russia liberata da tutte le ideologie rivoluzionarie assiste ai tentativi della Nato di asservire il mondo al modello americano… E se oggi le nazioni europee vogliono uscire dall’Europa che nega i valori cristiani devono rivolgersi al mondo ortodosso che resiste alla decadenza occidentale…». Non dimentichiamo che Putin è un cospicuo finanziatore di Marine Le Pen e di altri movimenti «populisti». Una strategia che non si sottrae a interventi anche mirati, com’è accaduto a dicembre quando il governo russo ha donato il grande abete natalizio che tradizionalmente viene allestito sul sagrato di Notre Dame: il rettore della cattedrale di Parigi aveva fatto sapere che la chiesa non aveva ricevuto abbastanza offerte per sostenere gli 80 mila euro necessari e in poche ore l’ambasciatore russo Alkeksandr Orlov ha provveduto. Un aneddoto non banale.
D’altra parte nella complessa ideologia putiniana la chiesa ortodossa ha un ruolo fondamentale per la ricostruzione del «mondo russo» disperso dalla scomparsa dell’Urss. Nel 2007, all’atto di riconciliazione tra il patriarcato di Mosca e la chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia, Putin ha detto: «La rinascita dell’unità ecclesiale è una condizione essenziale per restaurare l’unità perduta di tutto il mondo russo». Nei riguardi dell’Europa gli accenti sono sempre irridenti: «declino economico e decadenza morale», bisogna aiutare l’Europa a restare fedele alle sue radici cristiane e ai suoi valori tradizionali. Altre ironie in un incontro con le agenzie di stampa a San Pietroburgo nel maggio 2014: «Ho più volte detto ai miei amici europei che se non prendono in conto l’umore delle loro popolazioni, il nazionalismo crescerà».
Kirill è a suo modo un personaggio speculare a Putin. Alla caduta dell’Urss era praticamente il vice di Aleksij II, un patriarca anziano ed immobile, un’iconostasi vivente. Pragmatico, poco diplomatico, uno dei primi ad usare il telefonino. Quando Wojtyla nel 1993 andò in Lituania, fece allestire l’altare della messa in direzione di Mosca e alla fine della celebrazione fece ad alta voce in russo un’invocazione dai toni mistici: «Rossìa-Rossìa», Russia-Russia fu il suo grido. Ma non ci fu risposta. Allora, in un’intervista a La Stampa, proprio Kirill escluse qualunque riavvicinamento con Roma: «Il risveglio dell’attività ecumenica è oggettivamente ostacolato dall’attività dei predicatori cattolici, soprattutto da quelli polacchi».
Tutto questo per dire che si tratta di una chiesa che nelle gerarchie vive all’ombra e in parallelo con il Cremlino, dove i piani di Putin non sono tanto per la riconciliazione ecclesiale, ma per una partita globale. Come quella di Francesco. E non sono la stessa partita.
* Twitter @cesmartinetti / lastampa
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