In politica contano le intenzioni, «quello che vuoi fare», ma non è ininfluente la capacità di costruire qualcosa che metta in condizioni di farle, quelle cose
Farsi male (ancora) a sinistra
U
n risultato, comunque, in Sicilia la sinistra radicale l’ha ottenuto: Cinque stelle, centrodestra, Pd hanno scelto il loro candidato; gli ultrasinistri sono lì che si dedicano alle consuete dispute cifrate attorno alla presentazione — peraltro ancora non del tutto certa — di Claudio Fava. Il quale Fava, essendo accreditato di percentuali assai modeste, in ogni caso non correrebbe certo per la presidenza della Regione. E — a quanto è dato di sapere — non godrebbe nemmeno del consenso di tutte le forze collocate a sinistra del Pd. Il suo unico apporto alla competizione (forse neanche necessario) sarebbe quello di garantire la sconfitta del candidato del Pd e di Leoluca Orlando, il rettore palermitano Fabrizio Micari.
Ha un senso tutto ciò? Sì. Purtroppo, sì. Ed è probabile che qualcosa del genere si riproporrà anche al momento delle prossime elezioni politiche. Da circa un anno, dal momento cioè in cui i sondaggi unanimi hanno annunciato unanimi quale sarebbe stato l’esito del referendum del 4 dicembre, nel Paese è ripreso a soffiare il vento del proporzionale che impone alla politica tre regole assai diverse da quelle che hanno dettato legge nell’ultimo venticinquennio. Prima regola: le elezioni sono pressoché ininfluenti rispetto alla determinazione di maggioranze di governo. Seconda regola: esse stabiliscono esclusivamente la consistenza di partiti e movimenti. Terza regola (conseguenza della precedente): in una competizione elettorale la cosa che più conta è recar nocumento ai partiti collocati ai propri confini.
A meno dell’eventualità che con tali partiti confinanti ci si possa successivamente alleare per dar vita al futuro esecutivo (come era nella Prima repubblica tra la Dc e i partiti laici minori). I Cinque Stelle non hanno di questi problemi perché di queste alleanze non vogliono neanche sentir parlare. Silvio Berlusconi ha fin qui giocato la sua partita in modo davvero eccellente dal momento che pur soffrendo di evidente (e ricambiata) avversione nei confronti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ha saputo accantonare gran parte dei motivi di contrasto. Nel centrosinistra invece le cose sono tuttora assai complicate, soprattutto a sinistra del Pd. Qui, per il futuro, convivono (si fa per dire) due opzioni: la prima è quella che fa capo a Giuliano Pisapia e che consiste nel dar vita ad un raggruppamento molto, molto, molto diverso dal Pd, che ottenga il maggior numero di voti per poi avere un adeguato peso in una coalizione di governo, la quale non può che avere come principale interlocutore lo stesso Pd; la seconda, che ha come riferimento Bersani e D’Alema, è quella che mira ad arrecare al Pd il maggior danno possibile nella speranza di scalzarne il leader per poi eventualmente riprendere il dialogo con i suoi successori.
Chi fa sua questa seconda opzione non contempla una realistica prospettiva di governo (se non, forse, come supporto ad una maggioranza grillina): gli aderenti a Mdp e consimili si accingono a prender parte alle elezioni per riportare in Parlamento alcune personalità che non avrebbero (o già non hanno) trovato collocazione nelle liste renziane, personalità che, una volta entrate in una delle due Camere, darebbero quotidiana, vivace testimonianza della propria identità. Lo ha ben spiegato con la consueta franchezza (in un’intervista a Il fatto quotidiano) Tomaso Montanari — leader della formazione più intransigente di tutte — rinfacciando a Pisapia di non aver occultato la sua volontà di costruire una coalizione «vincente»: come se il suo fine, insinuava lo storico dell’arte, fosse «il potere, il governo» da raggiungere «con qualsiasi mezzo» (cosa che ad ogni evidenza Pisapia non ha mai neanche adombrato). «Io non dico che bisogna voler perdere», aggiungeva Montanari, «ma la vittoria non può essere un fine in sé, conta quello che vuoi fare».
Ma è vero questo? In politica contano, sì, le intenzioni, «quello che vuoi fare», ma non è ininfluente la capacità di costruire qualcosa che ti metta in condizioni di farle, quelle cose. Anche soltanto in parte. E dovrebbe essere considerato disdicevole che, per eccesso di «purezza», tu contribuisca alla vittoria di forze che quelle cose non le faranno mai. Nessuna. Anzi, ne faranno di contrarie. Con il rischio di arrivare ad un punto che, dopo le ultime elezioni presidenziali statunitensi, un celebre giurista di Yale, Stephen L. Carter, commentando la defezione di alcuni seguaci oltranzisti di Bernie Sanders dal voto per Hillary Clinton, ha descritto in questi termini. Abbiamo di fronte anni nel deserto, ha detto, «l’esilio dei democratici rischia di essere lungo». Troppi anche tra i miei amici sono diventati «esperti di condanna, derisione e scherno». Erano molto bravi a spiegare il motivo per cui «nessuno potrebbe mai avversare le loro posizioni politiche se non per i più vili dei motivi». La sinistra, ha sostenuto il giurista, enunciava le proprie posizioni con zelante solennità quasi suggerendo «che i propri punti di vista siano la Sacra Scrittura» e chi dissente debba essere «confinato nelle tenebre». La sinistra americana a lui è parsa «piena di arroganza» e «la hybris nella letteratura classica preannuncia sempre una caduta». I liberal di oggi, concludeva Carter, dovrebbero riscoprire le virtù del liberalismo vincente dagli anni Cinquanta agli anni Settanta che includevano tolleranza per il dissenso, uno sforzo per evitare di «ridurre problemi seri a ricerche dell’applauso facile» e fondamentalmente un atteggiamento di umiltà nel governare. Voleva forse dire che i liberal di un tempo non credevano nel profondo di avere ragione? No, voleva ricordare come quei liberal accettassero «che la loro nazione fosse un luogo diverso, che gli avversari avessero il diritto di dire la loro, che il governo non dovesse cercare di fare tutto in una volta e che la politica dovesse essere frutto di un lavoro condiviso». Il che, almeno in parte, è vero.
Inutile star qui a precisare quante e quali siano le differenze tra la sinistra italiana e quella americana costretta un anno fa ad assistere esterrefatta alla vittoria di Donald Trump (del che ancora non si è riavuta). Qualcosa però ci dice che il pur importante tema della collaborazione con Angelino Alfano — accettabile a Palermo ma non nel resto della Sicilia e, per carità, mai un domani in tutta Italia — non valga lo spettacolo di incertezza e litigiosità offerto dai nemici dell’ex primo cittadino di Milano. Il quale, ormai è chiaro, non è un attore adatto alla commedia politica così come va in scena di questi tempi. Ha un passato di garantista che lo rende antipatico a molti suoi futuri compagni d’avventura, è tormentato dai dubbi delle persone intelligenti, dalle incertezze e dai ripensamenti di chi non è mai stato un politico di professione. Qualsiasi amico sincero lo avrebbe sconsigliato in partenza di avventurarsi nel campo minato dove si è andato a ficcare. Ma adesso, in vista delle elezioni politiche, quel che resta fuori dal Pd deve scegliere: o si unisce attorno all’ex sindaco accettando che possa metter becco in materia di alleanze e candidature (ed è quest’ultima la vera materia del contendere) o non troverà più qualcuno capace di prenderne, credibilmente, il posto. Con il che dovrebbe poi procedere in ordine sparso. E, diciamocelo, non sarebbe una pagina degna di passare ai libri di storia quella che racconta come degli ex big della Dc e del Pci, ex ministri, ex presidenti del Consiglio (o aspiranti tali), non essendo riusciti ad eliminare Matteo Renzi, si accontentarono un giorno d’autunno del 2017 di aver fatto fuori Pisapia.
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