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leggia un rischio sul Matteo Renzi che riunisce oggi, dopo due rinvii, la Direzione del Partito democratico: la sottovalutazione – o addirittura la rimozione – di quanto accaduto (ormai quindici giorni fa) nei ballottaggi per il governo delle grandi città . Almeno un paio di novità , infatti, potrebbero indurre il premier-segretario in questa tentazione.
La prima – che potremmo definire il rischio del «c’è ben altro cui pensare» – sta nei drammatici sviluppi internazionali che hanno segnato le due ultime settimane: dalla Brexit alle nuove stragi del terrorismo. La seconda – che in fondo è il solito «mal comune mezzo gaudio» – risiede invece nelle forse inattese ma comunque pesanti difficoltà che il Movimento Cinque Stelle sta incontrando nell’avvio della sua esperienza di governo a Roma.
Certo, la Brexit ha cambiato molte delle carte che erano sul tavolo europeo, rovesciando sull’Italia diversi problemi ma anche inedite opportunità : e il nuovo «direttorio Ue» Merkel-Hollande-Renzi, subito riunito dopo l’addio di Londra, rende in qualche modo plastico il ruolo di maggior responsabilità cui il nostro Paese è chiamato. Discutere di questo non è certo un errore: farlo, però, magari con l’obiettivo recondito di aggirare i problemi aperti in Italia, potrebbe risultare oltremodo pericoloso.
Stesso discorso per le difficoltà del Movimento di Beppe Grillo, i cui problemi a Roma sono evidentissimi ma nulla c’entrano, evidentemente, col rovescio elettorale subito dal Pd. Il pantano nel quale sono finiti i «grillini» nella Capitale, testimonia solo – al massimo – che certi vizi della politica (correntismo, personalismi e dossieraggio) hanno attecchito rapidamente anche lì: e che la neo-sindaca Virginia Raggi farà bene a scegliere in fretta tra l’autonomia di cui l’hanno investita i cittadini e certi regolamenti interni di staliniana memoria.
Il Pd, i suoi problemi e il suo declinante radicamento territoriale hanno insomma poco a che fare con la Brexit e le magagne a Cinque Stelle. Discutere della forma-partito, delle difficoltà incontrate nelle periferie e perfino dell’opportunità di tenere vincolati i ruoli di segretario e di premier, dunque, non sarà (non sarebbe) inutile: resta da capire se Renzi intenderà farlo.
A giudicare dall’intervista concessa ieri a Maria Latella (Sky) – e volendola considerare un’anticipazione di quel che il segretario dirà oggi in Direzione – la minoranza interna non dovrebbe avere molti motivi d’ottimismo. La linea sulla quale sarebbe attestato Renzi, infatti, non parrebbe molto distante dalle valutazioni espresse subito dopo il voto: valutazioni che Bersani, Cuperlo e Speranza non hanno fatto mistero di non apprezzare.
La posizione del premier-segretario, in sostanza, non dovrebbe concedere molto alle richieste ed ai problemi sollevati fin qui dalla minoranza: le ragioni della sconfitta sarebbero da ricercare in un mix di fattori locali e «voglia di cambiamento» che il Pd non è riuscito – città per città – a intercettare; di organigrammi e vicesegretari unici non sarebbe nemmeno il caso di parlare; sull’Italicum non esisterebbero maggioranze parlamentari sufficienti a cambiarlo e il dibattito intorno alla separazione delle cariche di segretario e premier – dulcis in fundo – sarebbe addirittura «lunare».
Se dovesse andare davvero così, il Pd rischierebbe di perdere un’occasione di discussione che sembra ormai imposta dai fatti. I sondaggi danno il Movimento Cinque Stelle a ridosso o addirittura davanti al Partito democratico e lo stesso consenso alla figura del premier cala, in ragione della crisi che ancora attraversa il Paese. Bypassare tutto ciò per continuare a scommettere sugli effetti salvifici del referendum costituzionale di ottobre, potrebbe essere un grave errore: non solo perchè oggi le priorità sono altre, ma perchè su quel risultato e sui suoi effetti quasi nessuno più è disposto a scommettere il classico euro.
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