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n respingimento verso la Libia è fuori dalle norme, sarebbe condannarli a morte o alla detenzione».
Non ha dubbi l’ammiraglio Vittorio Alessandro, marinaio di lunghissima esperienza, responsabile delle relazioni esterne delle Capitanerie di porto negli anni del boom degli sbarchi a Lampedusa. Conosce bene quei mari e i suoi colleghi coi quali, dice, «condivido imbarazzo e un grande senso di impotenza».
Ammiraglio siamo tornati ai barconi?
È un ritorno a prima del 2013. Sono il classico mezzo di trasporto di chi doveva attraversare l’intero Canale fino a Lampedusa o alla Sicilia. Vecchi pescherecci malmessi che una volta giunti crollavano. Sono riapparsi perchè la legge dei vasi comunicanti non è facilmente comprimibile e quindi laddove cessa un presidio più pronunciato verso la Libia, la mafia dei trafficanti riorganizza la vecchia modalità.
Più pericolosi dei gommoni?
Basta poco a metterli a rischio perchè stracarichi. Ogni spazio viene sfruttato per far sedere le persone che durante il viaggio non possono muoversi. Quelle sottocoperta, che in teoria dovrebbero essere privilegiate, sono esposte ai fumi del motore e alla mancanza d’ossigeno.
Ma come fanno a partire indisturbati?
Sicuramente si tratta di un mezzo molto più visibile dei gommoni. Ma non è solo questo a far pensare a uno scarso controllo. Imbarcare 450 persone significa avere mano libera. C’è evidentemente una squallida rete che funziona bene.
Questo fa sospettare collusioni?
Fa sospettare che le partenze e perfino i drammi siano misurati in funzione dei vantaggi che se ne possono trarre, non solo nei confronti dei disperati che pagano ma anche degli Stati, in particolare l’Italia.
Ma quante Guardie costiere ci sono in Libia?
Non c’è un unico organo istituzionale. Ce ne sono tre come emerge anche da alcune segnalazioni dell’Onu. Siamo molto lontani dall’avere un interlocutore credibile.
Tra le ipotesi fatte c’è anche quella di una riconsegna ai libici.
È fuori dalle norme. Già l’Italia venne sanzionata, quando era ministro Maroni, per la restituzione di persone che erano fuggite. La fondatezza di questa impraticabilità è ancor più cresciuta dopo alcune sentenze che hanno confermato quanto la Libia non offra porti sicuri e che in realtà le persone respinte siano dei morti che camminano, destinate a non restare in vita o a finire in condizioni di detenzione.
Ora gran parte sono su navi italiane. Non dovrebbero sbarcare in un nostro porto?
Sono su territorio italiano. E una volta sul territorio italiano dovrebbero essere sottoposti a un trattamento di accoglienza previsto dalle nostre leggi.
Cosa stanno provando in questi giorni i suoi colleghi?
Appartengo a una storia condivisa dai colleghi, professionisti del mare, dei quali conosco non solo la serietà, la netta adesione alle leggi dello Stato ma anche la sensibilità. Non so quanto sia moneta corrente ancora l’umanità, ma in mare c’è la regola del salvataggio come prima risposta. Il resto viene dopo. Ritengo di poter condividere con tutti i marinai, coi quali ho fatto un percorso di vita, un imbarazzo e un grande senso di impotenza.
Teme qualche disastro?
È quasi scientifico. Non bisogna mai sperare nella disgrazia, ma quando a situazioni che hanno ciascuna una caratteristica propria si dà un’unica ricetta, si può determinare un irrigidimento sbagliato e siccome qui il prezzo lo pagano i più deboli, l’incidenza di rischio aumenta.
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/intervista-ammiraglio-alessandro
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