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Castellammare di Stabia

Mattarella all’inaugurazione dell’edizione 2018 di “The State of the Union” (VIDEO)

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l Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto alla Badia Fiesolana all’inaugurazione dell’edizione 2018 di “The State of the Union”, tradizionale appuntamento annuale organizzato dall’Istituto Universitario Europeo, quest’anno dedicato al tema “Solidarietà in Europa”. Fra gli altri ospiti della conferenza, il Presidente d’Irlanda Michael Higgins, il Presidente della Repubblica Ellenica Prokopios Pavlopoulos, il Presidente della Repubblica Portoghese Marcelo Rebelo de Sousa.

Questo il video ed il testo dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’apertura della conferenza “The State of the Union 2018, solidarietà in Europa”

Signor Presidente d’Irlanda,
Signor Presidente dell’Istituto Universitario Europeo,
Autorità,
Signore e Signori,

Parlare dell’unione dell’Europa rappresenta di per sé, oggi, una sfida.
Nel turbamento del mondo, quanto apparirebbe necessario il ruolo di equilibrio svolto da un concerto di 27 Paesi, tanto si mostra ampio il divario tra l’essere e il dover essere di un’ampia comunità che trova la sua dimensione in uno spazio già condiviso. Mai, dunque, come oggi appare urgente “unire”.
Eppure tanta parte dell’opinione pubblica del continente appare percorsa da sentimenti di disillusione, immemore del significato e dei risultati di un cammino prezioso e positivo, diretto a un traguardo che ha animato gli spiriti della gioventù formatasi nel ‘900. Questa mancanza di consapevolezza si colloca al di fuori della visione della storia.

Sono grato al Presidente Dehousse dell’invito a partecipare all’ottava conferenza sullo Stato dell’Unione.
E’ una occasione divenuta importante, grazie all’impegno dell’Istituto Universitario Europeo, dei suoi ricercatori e dei suoi vertici, che permette di aprire, ogni anno, un dibattito pubblico, serio e fondato, con ospiti di eccezione.

L’Italia è orgogliosa che sia Firenze a ospitare l’Istituto Universitario Europeo che, da oltre quattro decenni, contribuisce all’approfondimento della dimensione accademica e culturale del processo di integrazione europea, con uno sguardo rivolto non solo al passato, vista la localizzazione presso l’Istituto della prima scuola europea di transnational governance, chiamata a svolgere compiti di formazione nelle aree tematiche che possono essere affrontate soltanto attraverso coordinate azioni multilaterali.

L’appuntamento di oggi trova spazio nel quadro delle manifestazioni che segnano il “compleanno dell’Europa”: la ricorrenza della Dichiarazione Schuman, origine di quel fecondo processo di integrazione continentale che qui, oggi, contribuiamo a celebrare.

E’, quella, una radice che rimane viva e forte, e l’attualità delle parole pronunciate dal grande statista francese, in quel 9 maggio 1950, è evidente sin dall’incipit “la pace mondiale non sarà salvaguardata senza degli sforzi creativi, all’altezza dei pericoli che la minacciano”.

Un monito coraggioso, da chi aveva compreso l’entità dei cimenti di fronte ai quali si trovava l’Europa, e, al contempo, aveva meditato le chiavi per superarli: solidarietà e visione storica.

“L’Europa non si farà di colpo” egli scrisse “né con una costruzione d’insieme: essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creando prima di tutto una solidarietà di fatto”.

La forza di queste parole attraversa la storia degli ultimi settant’anni per giungere sino a noi. Per dirci come già nell’atto di nascita dell’Unione fosse centrale questa consegna.

Una solidarietà non astratta, affidata alla aridità delle parole di un Trattato, ma sostanza attiva dell’intero processo che si stava coraggiosamente intraprendendo.
Se è stata la solidarietà a rendere possibile l’avvio della nostra unione, non è senza significato tornare a quel legame – quasi primordiale – per affrontare i problemi odierni.
Lo è a maggior ragione in un contesto che vede crisi interne e internazionali, instabilità diffuse e venti di guerra, scuotere l’edificio europeo, rendendo esitante ogni ulteriore passo verso l’integrazione maggiore.

La operosa solidarietà degli esordi sembra, infatti, essersi trasformata in una stagnante indifferenza, in una sfiducia diffusasi, pervasivamente, a tutti i livelli, portando opinioni pubbliche, Governi, Istituzioni comuni, a diffidare, in misura crescente, l’uno dell’altro.

Non possiamo ignorare questo stato di fatto, né sottacere quanto sia diffusa, fra i cittadini europei, la convinzione che il progetto comune abbia perso la sua capacità di poter realmente venire incontro alle aspettative crescenti di larghi strati della popolazione; e che non riesca più ad assicurare adeguatamente protezione, sicurezza, lavoro, crescita per i singoli e le comunità.
Con una contraddizione singolare, che vede gonfiarsi, simultaneamente, le attese dei cittadini e lo scetticismo circa la capacità dell’Europa di corrispondervi.

Numerosi concittadini europei hanno smesso di pensare che l’Europa possa risolvere – nell’immediato o in prospettiva – i loro problemi. Vedono sempre meno nelle istituzioni di Bruxelles un interlocutore vantaggioso, rifugiandosi in un orizzonte puramente domestico, nutrito di una illusione: pensare che i fenomeni globali che più colpiscono possano essere affrontati al livello nazionale.

Una situazione paradossale, se pensiamo che oltre tre successive generazioni non hanno conosciuto, grazie all’integrazione, il dramma della guerra, che ha lambito e lambisce i confini dell’Unione. Basti pensare ai Balcani pochi anni addietro, alla crisi ucraina, ai conflitti nella regione del Nord Africa e del Medio Oriente.
Tutti sanno che nessuna delle grandi sfide, alle quali il nostro continente è oggi esposto, può essere affrontata da un qualunque Paese membro dell’Unione, preso singolarmente, quale che sia la sua dimensione.

Non lo sono quelle rappresentate dalle tensioni alle nostre frontiere settentrionali e meridionali, o l’instabilità prodotta da improvvise e inaspettate misure che rischiano di scatenare guerre commerciali negative per tutti. E neppure quelle relative all’energia, al cambiamento climatico, alla rivoluzione digitale, alle disuguaglianze economiche, al contrasto al terrorismo e a fenomeni sempre più subdoli e insidiosi di criminalità organizzata, all’epocale fenomeno migratorio.
La sicurezza e il progresso di qualsiasi società si basano sul principio della mutualità tra i suoi membri. E’ questo il senso della solidarietà: sapere di poter contare, quando non bastano le proprie forze, sull’aiuto del vicino.

Ebbene, milioni di persone sono in fuga dai loro luoghi d’origine; incombono una criminalità i cui proventi superano il PIL di molti Stati e una minaccia terroristica che dilaga fulminea a partire dal web, indipendentemente da qualsiasi frontiera.

Di fronte a tutto questo, pensare di farcela da soli è pura illusione o, peggio, inganno consapevole delle opinioni pubbliche.
L’irrilevanza delle politiche di ciascun singolo Paese europeo, fuori dal quadro di riferimento continentale, emergerebbe immediatamente.
Per affermare reale sovranità sul terreno dei diritti e delle libertà dei cittadini e su quello della cornice di sicurezza in cui organizzare la propria vita.
Per governare in modo appropriato la “frontiera europea” con efficacia e umanità.
Per assicurare la nostra sovranità alimentare e quella sul terreno della digitalizzazione, della gestione dei “big data”.

La risposta a tutti questi difficili test è una sola: Unione Europea.

Signor Presidente,
Signore e Signori,

I padri fondatori – De Gasperi, Schuman, Adenauer, Monnet, Spaak, e altri – furono uniti dalla solidarietà che proveniva da un compito comune: rifondare le loro comunità travolte dagli orrori della guerra nazi-fascista.
Un compito che aveva bisogno di ben poche spiegazioni. L’Europa doveva ritrovare il proprio percorso dopo la stagione buia delle dittature.

Due guerre devastanti e milioni di morti avevano reso chiarissima, a ogni singolo cittadino, l’esigenza di affidare la difesa della pace e della stessa libertà individuale e collettiva alla scelta di mettere in comune il futuro degli europei, con un livello di garanzia superiore rispetto a quello offerto dai singoli Paesi.
Una doppia garanzia costruita nei fatti in questi decenni, sino alla cittadinanza europea e al Trattato di Lisbona.
Nessun equivoco era possibile, nel 1948, di fronte a un mondo sconvolto dalla guerra e nel quale la logica dei blocchi stava già prendendo il sopravvento.

La difesa delle conquiste che rappresentavano, e ancora rappresentano, il patrimonio più grande della nostra storia – la libertà, lo Stato di diritto, il rispetto dei diritti dei singoli e delle collettività, il modello economico “europeo” basato sulla libertà di impresa e su ampie tutele per i lavoratori – sollecitava fortemente l’avvio di un percorso di progressiva integrazione fra i Paesi del nostro Continente.

Sulle frontiere, sulle tradizioni nazionali, prevalevano i valori unificanti che avevano portato, con solidarietà, i popoli a lottare insieme per affermare il loro rifiuto di essere meri sudditi o meccanismi ciechi di apparati bellici, confermandosi, invece, persone consapevoli, con la loro dignità umana integra, che nessuno Stato avrebbe più potuto violare impunemente. Questa la solidarietà autentica costruita tra la gente.
Una solidarietà che voleva lasciarsi definitivamente alle spalle la matematica dei torti e delle ragioni di due devastanti guerre mondiali.

Questa visione, e la sua partecipe e attiva condivisione da parte dei cittadini, ci hanno portati lontano.

Oggi siamo giunti a un punto cruciale nel percorso di integrazione, quello nel quale i diritti di cittadinanza espressi sin qui nelle sovranità individuali degli Stati, si trasfondono sempre più in quella collettiva dell’Unione, fondendosi in un unicum irreversibile.

Abbiamo una moneta capace di costituire un punto di riferimento concreto sul piano internazionale, un ruolo che nessuna moneta nazionale potrebbe svolgere.
Siamo finalmente tornati a lavorare concretamente a strumenti di difesa e di politica estera comuni e coerenti con le esigenze dei nostri Paesi, in una fase che deve registrare un dichiarato affievolimento dell’impegno del maggior alleato transatlantico e vede scatenarsi l’offensiva del terrorismo.

Stiamo perseguendo una politica di indipendenza e di qualità sul piano dell’energia che renderà l’Europa meno assoggettata a singoli fornitori.
Vogliamo affermare regole ambientali al più alto livello degli standard internazionali, a protezione della salute dei cittadini e del futuro del pianeta.
Tutto questo intorno a un’integrazione dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali che ha reso più prosperi i nostri popoli.
Più sicuri che nel dopoguerra, più liberi che nel dopoguerra, più benestanti che nel dopoguerra, rischiamo di apparire oggi privi di determinazione rispetto alle sfide che dobbiamo affrontare. E qualcuno, di fronte a un cammino che è divenuto gravoso, cede alla tentazione di cercare in formule ottocentesche la soluzione ai problemi degli anni 2000.
Basterebbe ancora un breve tratto di strada per mettere l’intera costruzione al riparo da tali minacce, ma – va detto – che basta ancor meno per minarne le fondamenta.

Cosa abbiamo trascurato? Perché lo slancio sembra essersi esaurito? Perché il concetto stesso di solidarietà viene così facilmente ripudiato nei fatti, spesso da coloro che sono i primi a fruire e ad avere fruito della solidarietà degli altri?

Forse non ci rendiamo conto a sufficienza di come gli “altri”, gli “extra-europei”, a differenza di alcuni fra noi, ci vedano e percepiscano in modo crescente come Europa e non più come singole realtà distinte. Forse stiamo dimenticando che l’Europa e la sua civiltà, nella loro ricchezza, sono irriducibili alla dimensione di un solo Paese o gruppo di Paesi. All’Unione potremmo applicare la definizione dello storico francese Ernest Renan che si interrogava su che cosa fosse una Nazione. Rispondeva: “una Nazione è un’anima, un principio spirituale…una grande solidarietà…un patrimonio…è un plebiscito di tutti i giorni”.
Questo plebiscito europeo non intendiamo perderlo!

E’ mancata, dunque, una capacità di autocoscienza, nonostante il prezioso lavoro compiuto.
Forse, con il passare degli anni, abbiamo dato per scontato – con colpevole superficialità – che le nuove generazioni, le nuove classi dirigenti, potessero continuare a percepire con la medesima forza – mentre i ricordi dei tremendi lutti del passato si affievolivano nella memoria collettiva – la qualità del “modello europeo” e del ruolo centrale che, in esso, assume la solidarietà.
Forse non abbiamo chiaro a sufficienza che tutto ciò che abbiamo costruito, i progressi che con fatica e pazienza abbiamo conseguito in questi anni, trovano una loro sistemazione logica e coerente unicamente nell’essere inseriti nel nostro comune modello di società.

Una società basata sulla reciproca garanzia prestata a un’area in cui si afferma lo Stato di diritto e tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Una società pacifica, libera, aperta e rispettosa, che vuole agire in un sistema di relazioni internazionali fondato sul dialogo con tutti i principali attori internazionali.

E’ questo – senza l’esclusione di nessuna sua componente – il modello di democrazia liberale al quale abbiamo invitato a partecipare quei Paesi che per lunghi anni la divisione in blocchi aveva escluso dalla dialettica di integrazione. E’ questo il modello di società che proponiamo quando parliamo di allargamento e di vicinato, e che auspichiamo possa radicarsi sempre più anche al di fuori del nostro Continente.

Signor Presidente,
Signore e Signori,
è evidente come l’Europa abbia bisogno di saper governare i problemi dell’oggi con la forza delle proprie radici e gli ideali della sua storia.

Questa è una responsabilità centrale per le leadership politiche di tutti i Paesi europei. Troppo spesso – e per troppi anni – l’Europa, in una narrativa superficiale e comune alla generalità dei Paesi membri, è stata rappresentata come un’entità burocratica, complessa e scarsamente intellegibile, alla quale addossare la responsabilità di misure impopolari e dell’allontanamento delle comunità locali dalle proprie tradizioni e dai propri costumi, in nome dell’integrazione.

In realtà le scelte, anche quelle discutibili, sono sempre state frutto del confronto democratico tra i governi in sede di Consiglio Europeo, con il concorso del Parlamento Europeo.

Certamente l’introduzione di talune misure e l’avvio di alcune politiche avrebbero potuto e dovuto essere più attente alle specifiche problematiche e sensibilità nazionali e poter puntare su obiettivi di coesione sociale accanto a quelli di risanamento dei conti pubblici.
E’, tuttavia, proprio responsabilità primaria delle classi dirigenti nazionali saper illustrare come l’integrazione di un singolo settore risponda proprio al principio di solidarietà, a una logica di più ampio respiro, a un “disegno forte” nel quale pace, benessere e prosperità nascono dall’abbandono di singoli vantaggi settoriali per condividerne di più importanti, per avviarsi su di un sentiero virtuoso comune, in cui tutti sono protagonisti.

Si tratta di un’azione da condurre senza ritardi: le Istituzioni europee e gli Stati membri dovrebbero dedicare ben maggiore impegno a un’opera di capillare e duratura istruzione sulle “ragioni profonde” dell’Europa.
Un’opera che nasca dalla scuola, dalla formazione già nelle prime classi, per proseguire lungo tutto il curriculum scolastico sino all’Università, ove l’Erasmus – e gli altri programmi di mobilità giovanile – già svolgono un ruolo di grande importanza.

La possibilità di rafforzarne le potenzialità, affiancando ad essi lo sviluppo di vere e proprie Università europee andrebbe rapidamente approfondita.
E’ da qui che occorre partire per avviare una riscoperta dell’Europa come di “un grande disegno” sottraendoci all’egemonia di particolarismi senza futuro e di una narrativa sovranista pronta a proporre soluzioni tanto seducenti quanto inattuabili, certa comunque di poterne addossare l’impraticabilità all’Unione.

La riscoperta del “disegno grande”, tuttavia, non può costituire esclusivamente una “risposta” di corto respiro alla miopia di queste visioni.
Essa deve, in primo luogo, consentirci, di riattivare la linfa vitale della costruzione europea, il suo senso profondo, la solidarietà fra popoli, Paesi e Istituzioni, permettendoci di ridare slancio al processo di integrazione per produrre nuovi e duraturi vantaggi collettivi, secondo le linee tracciate poco più di un anno fa nella dichiarazione di Roma poco più di un anno addietro.

E’ da questo testo, da tutti sottoscritto, che occorre ripartire. Senza integrazione non vi saranno benefici nazionali, ma soltanto maggiore irrilevanza dei singoli Paesi di fronte a un resto del mondo che cresce a un ritmo tumultuoso e nel quale attori, un tempo marginali, guadagnano posizioni di grande rilevanza, inediti.

Signor Presidente,
Signore e Signori,
credo sia opportuno menzionare un’altra circostanza che ha contribuito ad appannare l’immagine dell’Europa agli occhi della pubblica opinione.

L’enfasi prestata in modo incondizionato negli ultimi anni – da Maastricht in poi – agli aspetti esclusivamente economici dell’integrazione, pur se pienamente coerenti con il percorso di sviluppo e forieri di importanti risultati, ha probabilmente contribuito al rafforzarsi di una “narrativa” negativa.
Quella di un’Europa lontana, descritta in modo quasi caricaturale come l’Europa delle banche e dei banchieri, impegnata in una costruzione avulsa dalla sensibilità e dalle necessità del demos europeo, nella quale – tra l’altro – gli elementi di pur corretto rigore, necessario, non sono stati controbilanciati da elementi atti a far percepire l’efficacia della propria attività in tanti altri ambiti.

Il Manifesto di Ventotene – punto di riferimento culturale da non dimenticare – continua a ricordarci, come l’economia debba essere parte di una visione politica del percorso di integrazione. La regolamentazione dei mercati, le norme sulla moneta, le regole della concorrenza, non possono che essere concepite, infatti, come funzionali strumentali alla libertà e alla crescita, al conseguimento di un obiettivo politico generale, quello del miglioramento del benessere complessivo della società, e non come un punto di arrivo.

I grandi avanzamenti conseguiti sul piano dell’economia, della moneta e della finanza, devono essere accompagnati in modo coerente dal parallelo sviluppo di un pilastro sociale, in modo da rendere evidenti, nei confronti dell’opinione pubblica europea, la loro strumentalità rispetto al “disegno grande”.

Il contributo dato da rilevanti istituzioni dell’Unione, come la Banca Centrale Europea, con una saggia politica di accompagnamento della ripresa economica, va messo in luce.

Nonostante il suo mandato comprenda, a differenza di Banche centrali nazionali, esclusivamente l’obiettivo di una accurata gestione della stabilità monetaria, sarebbe arbitrario non voler riconoscere questo ruolo importante.
E la gestione della moneta comune cos’è se non l’espressione di una forte solidarietà tra i Paesi dell’Eurozona, esempio concreto per tutti gli altri?

E’ quella solidarietà a cerchi concentrici che non lascia indietro mai nessuno, bensì tiene la porta aperta, rispettando, insieme, l’ambizione di coloro che vogliono progredire e il ritmo di coloro che ancora non si ritengono pronti per scelte più stringenti.

E’ la mutualizzazione che dai principi della libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi, è passata per la moneta e ora coinvolge i principi dello Stato di diritto e la gestione della giustizia, la difesa e la politica estera e deve allargarsi sempre più alla cultura e alla formazione. E’ quella solidarietà che, attraverso l’esperienza dei Fondi europei di sviluppo e coesione ha fatto assumere in comune il problema delle disuguaglianze e delle aree territoriali svantaggiate, per combatterne gli effetti.

Signor Presidente,
Signore e Signori,
la sofisticata architettura europea ha bisogno di un’opera di continua e attenta manutenzione, per preservare Istituzioni solide, pervase dello spirito solidaristico che animava i padri fondatori e consapevoli delle prove che abbiamo di fronte.

L’impetuoso dipanarsi degli eventi, sul piano interno dei singoli Paesi e nelle relazioni internazionali è, infatti, costellato di sfide: la capacità di rispondere ad esse deciderà del nostro futuro.

Assistiamo a crisi che si approssimano sempre più ai nostri confini: come evitare che le nostre società, la nostra libertà, il nostro benessere siano sotto assedio, senza che l’Unione abbia gli strumenti per esprimere posizioni unitarie, all’altezza dei principi che ne ispirano l’esistenza e al peso politico della sua economia?

Dobbiamo allargare l’area di stabilità e di condivisione dei nostri principi mentre, invece, spesso stiamo procedendo con passo esitante nei confronti dell’allargamento ai Balcani Occidentali, laddove la prospettiva europea appare l’unica in grado di scongiurare tanto pericolosi ritorni al passato quanto la creazione di sfere di influenza esterne, fonte di instabilità per tutta l’Unione, perché basate su impianti valoriali radicalmente diversi dal nostro.

La solidarietà sul piano della sicurezza, l’integrazione militare, non possono essere disgiunti da obiettivi di solidarietà civile e politica.
Auspico che, anche su questo tema, sia a Bruxelles sia nei Paesi dell’area possano essere assunte decisioni coraggiose e lungimiranti.

Signor Presidente,
Signore e Signori,
all’interno dell’Unione, dossier centrali attendono ormai da tempo di essere affrontati con risolutezza, primi fra tutti la riforma del sistema di Dublino e l’Unione bancaria.

Si tratta di questioni chiave per il nostro futuro, ma che non troveranno soluzione soddisfacente – e rimarranno anzi bloccati – se non risolte all’interno di un quadro di rinnovata solidarietà, nel quale la ricomposizione di sovranità al livello europeo sia percepita come un’ovvia necessità, parte di un disegno generale, i cui benefici complessivi saranno alla fine, e per tutti, maggiori.
E’ la logica “win win” che deve prevalere su quella dei vincitori e dei vinti sui singoli dossier dell’Unione: quest’ultima non può far parte del patrimonio ideale dell’Unione.

Infine, ci troveremo ad affrontare l’esercizio del bilancio comune: un tema che, ci porterà a toccare con mano, quasi a misurare, il livello di ambizione dell’Unione nei prossimi sette anni.
Noi auspichiamo vivamente che il bilancio comune possa espandersi, nonostante la Brexit, grazie anche ad ulteriori risorse proprie.

Vanno individuati e posti al centro delle politiche i “beni pubblici europei”, da tutelare e sviluppare: quali la sicurezza interna ed esterna, la difesa, l’ambiente, una convergenza economica fra Paesi membri che rafforzi l’occupazione, sviluppando, in concreto, il solido “pilastro sociale”, individuato nel vertice di Göteborg.
La solidarietà si costruisce con le interconnessioni e l’interdipendenza: reti infrastrutturali e dei trasporti; reti energetiche e di tlc; reti di istruzione, universitarie e di ricerca; reti e programmi di innovazione tecnologica (si pensi a Galileo).

L’Italia si è sforzata di esprimere su questi temi posizioni equilibrate, inserite in un quadro di rafforzamento dei vincoli di solidarietà fra Paesi membri e di affermazione dei ruoli della Commissione e del Parlamento Europeo, quadro al quale non intendiamo rinunciare.

Signor Presidente,
vorrei concludere questo mio intervento citando Stefan Zweig, un raffinato scrittore austriaco, che, mentre infuriavano i combattimenti della prima Guerra Mondiale, scriveva: “il grande monumento all’unità spirituale d’Europa è andato in rovina, i costruttori si sono smarriti. Esistono ancora i suoi merli, ancora si ergono sopra il mondo confuso i suoi codici invisibili, tuttavia, senza uno sforzo comune, manutentore e perseverante, essa cadrà nell’oblio”.
Ancora oggi queste parole suonano come un monito. Sta a noi, e solo a noi, raccoglierlo.

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