N
on può finire così, quasi peggio di com’era cominciata. Ed era cominciata malissimo, con un bimbo del Bangladesh emigrato a Schio, in provincia di Vicenza, e costretto ogni giorno a vedere le mani del padre abbattersi sul volto della madre. A sette anni non può difenderla, ma solo cercare di difendersi, evadendo in un altrove. La scuola. Abu, nome finto di una storia vera, ama le maestre, i compagni e i libri: sono la sua famiglia. Impara in fretta l’italiano, e talmente bene da diventare il primo della classe. Intanto il padre finisce in galera per avere tentato di ammazzare la moglie, che va a rifarsi una vita con un altro uomo in un’altra città . Abu si trasferisce dagli zii materni, che lo adorano e lo vorrebbero adottare.
Il lieto fine sembra dietro l’angolo. A rovinarlo è una buona notizia: gli zii hanno ottenuto un lavoro in Inghilterra. Devono partire subito, altrimenti lo perderanno. Ma non vogliono perdere Abu. Per portarlo con loro serve il consenso del padre, che dalla galera da cui sta già per uscire glielo nega. Pur di scampare alle grinfie di quell’uomo, Abu è costretto a ritornare subito in Bangladesh, dentro un quartiere miserabile, nella baracca di una nonna cieca. Le maestre e i genitori dei suoi compagni si ribellano, gli avvocati studiano le carte per il ritiro della patria potestà e gli imprenditori vicentini pagano le spese. Questa Italia che qualcuno descrive razzista si rivela meravigliosa nel sostenere chi se lo merita. Là nel buco del mondo, sradicato dai suoi affetti e dai suoi libri, un piccolo italiano ad honorem aspetta col cuore gonfio di nostalgia e di speranza. Non può finire così, troppo peggio di com’era continuata.
vivicentro.it/opinione –  lastampa/Italiano ad honorem MASSIMO GRAMELLINI
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