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Il gigante sul precipizio

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otare la messa in stato di accusa di un Presidente, in qualsiasi Paese, è una specie di arma atomica della politica: dovrebbe essere una scelta estrema, ma è tale da poter avere conseguenze estreme. In Brasile il Senato ha votato per aprire il procedimento di messa in stato di accusa per Dilma Rousseff, il Presidente al suo secondo mandato che i brasiliani hanno rieletto solo nel 2014.

Le ricadute potrebbero essere molto positive per la democrazia nel Paese, o anche altamente distruttive.

In linea di principio, gli eventi politici che hanno portato il più grande Paese del Sud America a questo passo possono essere visti come emblematici della forza delle istituzioni politiche brasiliane. La caduta di Rousseff nasce da un’inchiesta coraggiosa ma ben fondata sulla corruzione presente nella maggiore compagnia petrolifera del Paese, la Petrobras, di proprietà dello Stato e produttrice di petrolio e gas.

Rousseff non è accusata di corruzione anche se tra i suoi incarichi come capo di Stato c’è quello di presiedere il consiglio di amministrazione della Petrobras. E’ accusata invece di aver falsificato i dati statistici ufficiali sul bilancio governativo durante la campagna presidenziale del 2014 per offrire un’immagine migliore della sua amministrazione.

Potrebbe sembrare una colpa molto tecnica, o anche tipica – non è forse vero che tutti i governi manipolano i fatti per fare bella figura? – ma poiché ha vinto di misura, viene vista come una forma di frode elettorale. Così questa messa in stato di accusa può essere interpretata come un tentativo da parte della classe politica brasiliana per elevare il suo livello di credibilità elettorale.

Tuttavia questa interpretazione così favorevole presenta un problema, tale da poter mettere in guai seri anche il suo successore, il vicepresidente Michel Temer. Che al momento è presidente a interim, in attesa del verdetto sulla Rousseff, che pochi però pensano riuscirà a conservare il suo incarico.

Il problema è che in Brasile lo scandalo della corruzione coinvolge l’intera classe politica dominante – compreso il partito del Movimento democratico brasiliano di Temer, alleato del Partito dei lavoratori di Dilma Rousseff. L’inchiesta su Petrobras, nota come Operazione Autolavaggio, richiama subito alla memoria l’inchiesta di Tangentopoli o Mani Pulite, 25 anni fa.

Proprio come Mani Pulite, l’operazione Autolavaggio sta gettando il discredito su tutti i politici brasiliani, minando ulteriormente la fiducia delle imprese e dei consumatori in un’economia al suo quarto anno di recessione e rischia sia di aggravare il conflitto politico, sia di favorire la comparsa sulla scena politica di nuovi estremisti, speranzosi di riempire il vuoto politico creatosi o, come cercò di fare Silvio Berlusconi con Forza Italia nel 1994, di mettere al riparo dalle inchieste interessi politici ed affaristici.

Di fronte a questo, le idee di Temer, favorevole alla liberalizzazione e a un governo più snello, potrebbero essere proprio quello che serve al Brasile. Ma ci sono poche speranze che riesca a far accettare il suo punto di vista al Parlamento. Anche se la messa in stato di accusa ha avuto una vasta adesione, sia in Parlamento come nell’opinione pubblica, una larga maggioranza resta convinta che un governo Temer sarebbe essenzialmente illegittimo.

Lo scenario migliore per il Brasile e per le idee di liberalizzazione di Temer, sarebbero nuove elezioni presidenziali dopo il completamento del processo a Dilma Rousseff. Una scelta che aiuterebbe a ridare respiro alla politica, confermerebbe la tenuta delle istituzioni e garantirebbe un governo la cui legittimità non potrebbe essere messa in dubbio. L’alternativa è una lunga battaglia politica, con gli inquirenti presi di mezzo, il Paese paralizzato e i cittadini brasiliani come principali vittime.

Traduzione di Carla Reschia

vivicentro.it/editoriale / lastampa / Il gigante sul precipizio BILL EMMOTT

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