Strage di Via d’Amelio, processo quater: convergenti interessi di altri soggetti estranei a Cosa nostra

Lo dicono i Giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel processo quater sulla strage...

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Lo dicono i Giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel processo quater sulla strage in cui fu ucciso Borsellino e la sua scorta.

Ci siamo occupati in precedenti articoli del processo quater sull’uccisione del Magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta “19 Luglio 2018 26 anni fa in Via D’Amelio a Palermo, la mafia uccideva Paolo Borsellino”, “20 Maggio 2019 Fiammetta Borsellino: Abbiamo avuto indagini e processi fatti male” “17 Luglio 2019 Gli inediti appelli del Magistrato Borsellino. I presidenti delle Commissioni Antimafia di allora”, “19 Luglio 2020 La Questura di Palermo ricorda le vittime della strage di via d’Amelio.

Sulla strage di via D’Amelio, costata la vita al Magistrato Paolo Borsellino e alla sua scorta, fu “costituita una verità che in un determinato momento storico si è voluta accreditare”, una verità di comodo, dunque, basata su dichiarazioni false: lo scrivono, confermando la tesi del depistaggio dell’inchiesta sull’attentato i Giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta che ieri hanno depositato le motivazioni della sentenza che ha confermato la condanna all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage e la condanna a 10 anni dei “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia.

Per i giudici, i falsi pentiti che accreditando una ricostruzione mendace della strage fecero condannare all’ergastolo persone estranee all’attentato, erano parte di un piano ben preciso. Le loro dichiarazioni erano “avvinte da una sorprendente circolarità di contenuti» ed erano fondate su frammenti di verità in ordine ad alcuni dettagli degli eventi che solo fonti qualificate potevano avere». Secondo la corte la finalità del depistaggio non è chiara. Ma, precisano i Giudici, come ritennero i Magistrati del primo grado, gli inquirenti dell’epoca, incaricati di indagare sulla strage di Via D’Amelio, credettero a una fonte confidenziale, mai rivelata «tanto da operare poi una serie di forzature per darle dignità di prova».

Nella sentenza i Giudici scrivono che non si può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la ‘Trattativa Stato-mafia’ avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del Paese nella tornata di elezioni politiche del 1992”. Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del Magistrato Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”. Lo scrivono i Giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta che, nella sentenza del processo ‘Borsellino quater’ di secondo grado escludono nelle 377 pagine delle motivazioni che la trattativa abbia accelerato l’uccisione di Borsellino.

Secondo i Giudici “è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di ‘destabilizzazione’ intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso. Deve essere ritenuta ancora attuale – scrivono i giudici – la valutazione espressa dai Giudici Supremi in seno alla prima sentenza emessa nel procedimento Borsellino ter relativamente alla incidenza che la cosiddetta ‘trattativa Stato-mafia’ avrebbe avuto sulla deliberazione della strage di via D’Amelio anche alla luce delle ulteriori acquisizioni probatorie cristallizzate nel presente procedimento”.

Nel novembre 2019 la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, confermando la sentenza di primo grado ed accogliendo le richieste della Procura generale, condannò all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i 5 uomini della scorta. Condannati a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. Così come aveva fatto la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo anche in appello i giudici avevano dichiarato estinto per prescrizione il reato di calunnia contestato a Vincenzo Scarantino.

“Deve dunque escludersi la sussistenza di elementi probatori idonei a fare ritenere che vi sarebbe stata, per la sola strage di via D’Amelio, una sorta di “novazione” (innovazione) della deliberazione di morte, tale da avere determinato una soluzione di continuità rispetto alla precedente deliberazione stragista risalente alla riunione degli ‘auguri di fine anno 1991”, scrivono i Giudici della Corte d’assise d’appello. E aggiungono: “Allo stato, comunque, il quadro probatorio appare immutato rispetto a quello già considerato dalla Suprema Corte di Cassazione nella richiamata pronuncia del 2003, non sussistendo altri elementi probatori per dire che la strage di via D’Amelio abbia avuto una causale diversa dalla matrice mafiosa o che la stessa sia ascrivibile a un contesto deliberativo diverso da quello accertato nel corso del presente procedimento, nel quale si inscrive il protagonismo dell’imputato appellante”.

“Anche dopo il suo trasferimento a Marsala, il Magistrato Paolo Borsellino aveva continuato la sua instancabile opera nel contrasto alla criminalità organizzata, continuando a essere insieme al collega e amico Giovanni Falcone un simbolo della lotta alla mafia, rendendosi ben visibile anche agli occhi della stessa organizzazione criminale che continuava a concepire propositi omicidiari nei suoi confronti”, scrivono i Giudici nella sentenza.

La strage di via D’Amelio “rientrava nel mandamento di Resuttana” e un “delitto eclatante come quello realizzato non avrebbe mai potuto essere realizzato senza il consenso del capo mandamento, in ossequio alle rigide regole di ‘competenza’ territoriali osservate in Cosa nostra. In via D’Amelio era ubicato il covo dove venne rinvenuto il ‘libro mastro’ delle estorsioni sequestrato nel 1989 al fratello dell’imputato Antonino Madonia, documento che consentì di ricostruire la gestione del racket del ‘pizzo’ in una vasta zona di Palermo – dicono i giudici – Nelle immediate adiacenze del luogo della strage vi era, inoltre, un edificio in costruzione ad opera della dotta facente capo ai fratelli Graziano, imprenditori edili inclusi tra i prestanome dei Madonia”.

“La strage di via D’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il maxiprocesso”. Così Sentenziano i Giudici. “Ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e terrore non può trovare accoglimento – dicono – potendo, al più, le emergenze probatorie indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti o gruppi di potere interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”.

“Ma tutto ciò – continuano i Giudici – non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dati causa agli eventi di cui si discute. È possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione provinciale e nelle precedenti riunioni della Commissione regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra”.

In 377 pagine i Giudici ripercorrono le tappe della vicenda. E si soffermano soprattutto sulle “persistenti zone d’ombra e sulla paternità mafiosa della strage”. Tra le ombre citate dai Giudici ci sono anche gli “uomini ‘sconosciuti’ sul luogo del delitto e nell’immediatezza dello stesso un uomo ‘estraneo a Cosa nostra’ al momento della consegna dell’autovettura Fiat 126 da parte di Gaspare Spatuzza*.

“Le emergenze probatorie acquisite nel procedimento costituiscono singoli pezzi di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti – aggiungono sempre i Giudici – Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosa’ dell’agenda rossa del Magistrato e alla ricomparsa della borsa stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio di Arnaldo La Barbera*.

“Le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi – proseguono i Giudici – hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione, ‘in giacca’ nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nella immediatezza come appartenenti ai servizi segreti“.

E tale ultimo particolare appare ancora più inquietante – esplicitano i Giudici – se si considera che ‘di un uomo estraneo a Cosa nostra’ ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza*, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la Fiat 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo“.

L’opinione.

Purtroppo la strage di Via d’Amelio, del Magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta (come altre stragi, casi simili o anche meno noti oppure cosiddetti minori), rimane “in ombra” come scritto dai Giudici nelle motivazioni della sentenza del processo quater d’appello di cui sopra.

* Arnaldo La Barbera (deceduto alcuni anni addietro): era stato promosso capo della squadra mobile di Palermo nell’agosto del 1988. Qui dopo una serie di arresti di latitanti eccellenti, gestisce le prime indagini per le stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992. Nel gennaio 1993 viene nominato dirigente generale di PS e trasferito alla Direzione centrale della polizia criminale, per tornare pochi mesi dopo a Palermo per guidare il “gruppo d’indagine Falcone-Borsellino” dello SCO, e poi essere nominato nel 1994 questore del capoluogo siciliano. Ha convinto a collaborare il falso pentito Vincenzo Scarantino, che portò ai processi sulla strage di via d’Amelio, le cui risultanze furono completamente smentite diciassette anni dopo da Gaspare Spatuzza nel processo Borsellino quater, nella cui sentenza di primo grado i giudici hanno scritto che: «…La Barbera ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa…». Resta a Palermo fino al febbraio del 1997, quando arriva la nomina a questore di Napoli. Il 14 ottobre del 1999 è diventato questore di Roma, dove resta fino al gennaio 2001[8]. Da gennaio 2001, nominato prefetto dal Consiglio dei ministri, è a capo della Direzione centrale della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos).

* Gaspare Spatuzza: era un rapinatore e poi sicario, soprannominato “u Tignusu” (il Pelato) per la sua calvizie. Era affiliato alla Famiglia di Brancaccio, guidata dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Si è autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 che il 19 luglio 1992 venne impiegata come autobomba nella strage di via d’Amelio in cui furono uccisi il Magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. Cooptato da Salvatore Grigoli, fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio di don Pino Puglisi del 15 settembre 1993, per il quale è stato condannato all’ergastolo con sentenza definitiva. È stato inoltre condannato per altri 40 omicidi tra cui quelli di Giuseppe e Salvatore Di Peri, Marcello Drago, Domingo Buscetta (nipote del pentito storico di Cosa Nostra, Tommaso) e Salvatore Buscemi. Il 23 novembre 1993 rapì Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, che sarebbe stato ucciso dopo oltre due anni di prigionia. Arrestato il 2 luglio 1997 presso l’ospedale Cervello di Palermo, da allora è in carcere. Durante la detenzione, si è iscritto alla facoltà di Teologia. Dall’estate 2008 si è dichiarato pentito ed è divenuto collaboratore di giustizia rilasciando diverse dichiarazioni in ordine alla strage di via d’Amelio, alle bombe del 1993 a Milano, Firenze e Roma e ai legami fra la mafia e il mondo politico-imprenditoriale.

Adduso Sebastiano

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