L’incognita delle urne si fa sentire sulla ripresa economica

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L’Ue migliora le stime sulla crescita del Pil italiano ma restano i dubbi sulla manovra e pesa l’incognita delle urne.

La ripresa e l’incognita delle urne

Chi osserva l’evoluzione della situazione politica italiana può legittimamente concludere che in Italia tutto stia andando piuttosto male. E convincersi, dopo i risultati della prova elettorale siciliana, che, con le prossime elezioni politiche, si vada verso una confusa situazione di difficile governabilità, nella quale per Parlamento e governo sarà estremamente arduo prendere una qualsiasi decisione importante.

Chi, invece, osserva i dati della congiuntura economica italiana può ragionevolmente pensare di essere in un altro Paese e deve darsi un pizzicotto per rassicurarsi di essere sveglio. Nell’ottobre di un anno fa, il Fondo Monetario Internazionale stimava che, nel 2017, il nostro prodotto interno lordo sarebbe aumentato dello 0,9 per cento; nell’ottobre di quest’anno ha dovuto rivedere sensibilmente al rialzo questo dato, portandolo all’1,5 per cento. Siamo quindi usciti dal territorio infido della crescita allo «zero virgola».

L’Istat, inoltre, ha registrato per settembre, oltre 150 mila disoccupati in meno e oltre 300 mila occupati in più rispetto al settembre 2016.

Certo, il livello pre-crisi è ancora lontano 3-4 anni, ma questo indica soltanto quanto siamo caduti in basso e quasi tutti gli indicatori economici oggi hanno un segno positivo. Per esprimerci in termini calcistici, non siamo più in zona retrocessione e possiamo ragionevolmente mirare, nei prossimi 2-3 anni, a raggiungere in maniera stabile la metà della classifica della (non certo altissima ma probabilmente sostenibile) velocità di crescita dei Paesi europei.

Oggi Bruxelles renderà pubbliche le sue valutazioni sull’economia italiana e evidenzierà il pericolo di un rallentamento della crescita, un deficit strutturale che si riduce di pochissimo. Ci inviterà a fare di più, non abbassare la guardia, come una maestra fa con un allievo che ha con fatica raggiunto la sufficienza. Abbiamo sfruttato abbastanza bene il vento favorevole della Bce grazie alle riforme, realizzate tra molti contrasti e usufruito di un sensibile abbassamento degli interessi pagati sul debito pubblico. Se il mondo avrà fiducia in noi, questi interessi non saliranno di molto.

In quest’ orizzonte di cauto miglioramento, la politica è, se non l’unica, certo la principale nota stonata: gli stessi italiani che stanno acquistando di più nei negozi (e su Internet) stanno andando a votare in numero sensibilmente minore. E per quelli che ci vanno, la situazione economica non figura certo tra gli elementi essenziali in base ai quali decidere quale lista sostenere. Del resto, guardando alle recenti polemiche politiche, si direbbe che, per i politici stessi, l’economia quasi non esista o che non abbia problemi. Nelle loro dichiarazioni ci sono promesse, non ci sono programmi, ci sono slogan, non analisi serie, ci sono orizzonti limitati, non ampi panorami.

Alle elezioni politiche mancano all’incirca 150 giorni, un tempo sufficiente, anche se non certo abbondante, per preparare e presentare programmi coerenti, per abbozzare proposte di futuro, per dialogare con i giovani che vorrebbero vedere in questi programmi le basi dei propri piani di vita, non la promessa, di incerta realizzazione, di qualche «mancetta» in più. Sarebbe importante che i leader politici, invece di pensare a sfide televisive relativamente vuote di contenuto, ci raccontassero quali sono i loro obiettivi per un’Italia migliore e come intendono realizzarli. Forse così diminuirebbe il numero dei giovani italiani che il futuro migliore lo vanno a cercare all’estero. Almeno sui grandi temi (crescita e struttura della produzione, occupazione, pareggio dei bilanci pubblici, attenuazione dei divari tra il Mezzogiorno e il resto del Paese) il cittadino dovrebbe esigere che gli venga presentato un disegno di fondo con i piani per realizzarlo.

Quest’«operazione futuro» non dovrebbe fermarsi alla politica. Agli imprenditori, e alle organizzazioni che li rappresentano, corre l’obbligo di non limitarsi a chiedere una riduzione del carico fiscale ma di svolgere anche una funzione propositiva su progetti di lungo periodo, sul loro finanziamento e sul loro controllo, un impegno di massima a realizzare determinati investimenti, magari di concerto con il settore pubblico: oltre a continuare a operare al meglio nell’immediato è loro dovere di guardare più lontano. Le organizzazioni dei lavoratori, dal canto loro, dovrebbero iniziare un processo mirante a valutare le necessità del lavoro «nuovo» e non a insistere soltanto nella, pur necessaria, difesa delle prerogative del lavoro «vecchio».

Ce la faremo? Ne abbiamo la possibilità. Altrimenti di qui a un anno rischiamo di sentire da Bruxelles e dai mercati finanziari toni ben più severi e di veder dissolversi i piccoli ma importanti miglioramenti sin qui realizzati.

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lastampa/La ripresa e l’incognita delle urne MARIO DEAGLIO

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