Il populismo d’Occidente che cancella i moderati. EZIO MAURO*

In Europa come in Usa un vento radicale piega la destra moderna DUE parole faticano...

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In Europa come in Usa un vento radicale piega la destra moderna

DUE parole faticano oggi a farsi largo in Occidente: moderato e conservatore. Nella semplificazione politica e giornalistica, esprimono ormai lo stesso concetto, una destra moderna, non reazionaria, con il senso delle istituzioni e il sentimento della tradizione. In un Paese sfortunato come il nostro, questa destra manca da sempre e il suo vuoto è stato riempito parzialmente per decenni dal post-fascismo, dal doroteismo democristiano, dal populismo berlusconiano, così com’è mancata simmetricamente per decenni una forte sinistra di governo, occidentale e riformista, che ha poi faticosamente preso corpo (ma non ancora anima) con il Pd.

Nelle altre democrazie europee, e negli Stati Uniti, quella tradizione politica moderata esiste e quella forma-partito conservatrice anche. Soltanto che ovunque, in Europa come in America, una spinta radicale di destra oggi piega i moderati come canne al vento: o li sfida direttamente con candidati estremi o impone l’agenda politica con i suoi temi e le sue ossessioni, o si costituisce in fronda interna autorizzata e organizzata, facendo saltare la cornice comune che per un secolo ha tenuto insieme i vecchi partiti. E in ogni caso, ovunque esercita un’egemonia negli stili e nei linguaggi, rendendo i moderati gregari riluttanti degli estremisti. E creando una nuova creatura ideologica imperniata sull’alleanza tra Dio e il capitale, nazione e reazione, suolo, sangue e frontiera, in un Paese immaginario che parla la neolingua del politicamente scorretto. Una neolingua per una neodestra, appena nata nella culla dell’antipolitica e della crisi economica più lunga del secolo. Proprio la fine delle paure del primo Novecento, con i tabù del totalitarismo spiega questa emersione improvvisa. Ritenendo la democrazia una conquista ormai consolidata al punto da essere usurata, oggi ci si prende la libertà di forzarne il confine, la forma e la sostanza, a patto di mantenerne intatta e lucida la superficie, sempre più sottile. Si disprezzano le istituzioni puntando a comandarle più che a guidarle, riducendole così a puro strumento dell’ideologia. Viene meno infatti anche il sentimento costituzionale, il rispetto naturale delle regole fondamentali e dei principi di legittimità democratica a cui si ispiravano, come se fossero fenomeni transitori, legati al ciclo di una o due generazioni, quelle appunto novecentesche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con una rincorsa estrema a scavalcare il limite che ogni volta si sposta più avanti, perché c’è sempre qualcuno pronto a non riconoscerlo. Non avere un limite, è infatti il primo comandamento scorretto.

Così l’Europa si sta spezzando ovunque, con Bruxelles che patteggia e rattoppa nelle varie capitali, dove ognuno ha capito che può alzare il prezzo dell’Unione a suo piacimento. Con Cameron che contratta fino all’ultimo il suo no al Brexit mentre indice il referendum, e deve però fronteggiare in casa la ribellione di un terzo dei suoi ministri e del sindaco della città più cosmopo- lita del continente, Londra, schierato contro l’Europa in un radicalismo conservatore che è già una piattaforma della nuova destra. E se l’Unione deve fronteggiare la ribellione di Vienna, che vuole limitare l’ingresso dei rifugiati nel Paese, alla seconda destra austriaca questo non basta: l’area xenofoba di Heinz-Christian Strache continua infatti a crescere nei sondaggi e chiede un no deciso all’Europa, amicizia con Putin, tolleranza zero contro i migranti. In Polonia la Chiesa appoggia i nazionalisti euroscettici e clericali di “Diritto e Giustizia” guidati da Jaroslaw Kaczynski in una politica che ha paralizzato la Corte costituzionale, ha epurato radio e tv, controlla e censura internet. L’ideologo e stratega di questa radicalizzazione a destra è naturalmente Viktor Orbàn, il premier ungherese al potere dal 2010 col suo partito nazional-conservatore che dopo aver normalizzato le magistrature e i media ha costruito il suo Muro e ora vuole estenderlo al confine romeno: ma intanto a destra di questa destra sta già prosperando il partito estremo Jòbbik, apertamente antisemita e nostalgico. Crescono i populisti in tutti e cinque i Paesi della Comunità nordica, con un partito anti-immigrati e anti-Ue che vola in Svezia nonostante un’economia che segna un + 3,5 per cento, gli ultra-conservatori che sono partner di governo in Norvegia e in Finlandia, gli xenofobi danesi all’opposizione, ma forti del 21 per cento.

Resta la Germania, dove la crisi dell’immigrazione e la polemica contro la Merkel ha ridato fiato al partito Afd, che opponendosi agli stranieri e a ogni trasferimento di sovranità sfiora nei sondaggi il 12 per cento. E infine c’è l’aperta rivendicazione di Marine Le Pen per guidare la Francia dall’Eliseo col suo partito di eredità post-fascista e di pratica antieuropea, che costringe i repubblicani di Sarkozy sulla difensiva. Se si aggiunge il fenomeno Trump, ormai apertamente in grado di terremotare non solo le primarie ma il sistema politico americano, il quadro è completo. C’è poi, ad aggravare la situazione, quel fenomeno particolare e non ancora indagato che potremmo chiamare la “sinistra mimetica”. Movimenti nati a sinistra, o con base sociale in gran parte a sinistra, che mutuano modi e linguaggi dalla destra più radicale per rimanere sulla cresta dell’onda securitaria e islamofoba, sperando di lucrare una quota del dividendo elettorale della neodestra. È il caso del presidente xenofobo e russofilo della Repubblica Ceca, Milos Zeman che nasce di sinistra, del premier socialdemocratico di Slovacchia Robert Fico: ma anche, com’è evidente, del Movimento 5 Stelle in Italia, con le movenze di sinistra, l’elettorato composito e coltivato trasversalmente, e una chiara predicazione antieuropea e antieuro.

Che cosa spiega questo slittamento che restringe l’area moderata in tutto l’Occidente? La spiegazione economico-sociale poggia sulla crisi, che partita come fenomeno economico-finanziario ha finito per corrodere tutta l’impalcatura intellettuale, politica e istituzionale della democrazia materiale che ci eravamo costruiti nel dopoguerra per proteggere la nostra vita in comune.
Scopriamo improvvisamente, in questi ultimi anni, che il meccanismo democratico da solo non ci protegge. Anzi, potremmo dire che la scoperta è più radicale: la democrazia non basta a se stessa. Nasce il disincanto della rappresentanza, la nuova solitudine repubblicana. Tutto diventa fragile e transitorio, nulla merita un investimento a lungo termine, dunque la stessa politica tradizionale finisce fuorigioco perché cerchiamo risposte individuali a problemi collettivi.

C’è un elemento in più. Prima della crisi il ceto medio emergente aveva tentato di diventare soggetto politico mettendosi in proprio, autonomizzandosi sia dalla grande borghesia che dal proletariato: in Italia questa avventura aveva avuto come demiurgo Berlusconi con la promessa di uno Stato più leggero, di una forte riduzione delle tasse, di un sovvertimento della classe dirigente. Il fallimento del progetto berlusconiano – che non aveva evidentemente nulla di moderato e ben poco di conservatore – e il gelo della crisi hanno frustrato due volte questo tentativo di emancipazione di soggetti sociali che perdono la speranza di produrre politica direttamente dai loro interessi legittimi, si proletarizzano per le difficoltà finanziarie e ripiegano sconfitti in quella che De Rita chiama la “grande bolla” del ceto medio.
L’esito di questi percorsi collettivi è il riflusso da ogni discorso pubblico o appunto la ribellione, l’antipolitica. Nella convinzione che il cittadino possa disinteressarsi dello Stato, senza accorgersi che nello stesso tempo lo Stato si disinteressa di lui, perché quando la sua libertà non si combina con quella degli altri e l’esercizio dei suoi diritti resta soltanto individuale, lui diventa un’unità anonima da rilevare nei sondaggi, realizzando la vera solitudine dei numeri primi.

Si capisce che a questo crocevia tra la solitudine e la ribellione stia accampato il populismo, interessato ad entrambe. Tutti diversi tra loro, i leader radicali hanno un tratto in comune: propongono soluzioni semplici a problemi complessi (il “puerilismo”, lo chiamava Huizinga) danno sempre la colpa ad un nemico esterno, attaccano un potere gigantesco e indefinito, berciano sulle élites, si rinchiudono nell’ossessione territoriale, immaginano complotti perché investono su un indebolimento dello spirito critico a vantaggio di una visione mitologica dell’avventura presente. I problemi veri – il lavoro che manca, la crescita che arranca, Daesh che uccide – vengono evocati e cavalcati, ma in forma fantasmatica, all’insegna di una sfiducia perenne nei confronti delle istituzioni e della stessa democrazia.

Noi vediamo chiaramente che tutto questo fa emergere i campioni della neodestra, gladiatori incontrastati di una fase in cui tutto vacilla. Ma non ci accorgiamo che parallelamente si corrode la cornice del pensiero liberaldemocratico, proprio nella fase in cui si è insediato (lo diceva anni fa Galli della Loggia) come l’unica dimensione politica comunemente accettata e condivisa, dopo le tragedie nel Novecento: e infatti il dogma di Orbàn è “il fallimento del liberalismo”, da cui ricava la possibilità di demolire la separazione dei poteri. In realtà la neodestra più che un pensiero ha una superstizione del mondo e un’ideologia di sé, unita ad una feroce volontà di escludere e alla capacità di offrire nel contempo una fruizione politica dei risentimenti e delle paure. È la ricetta semplice e forte del fondamentalismo che negando valore ad ogni teoria divergente o preesistente costruisce quel senso di falsa sicurezza tipico di chi vive murato all’interno delle fortezze, pensando – come spiega Bauman – di tagliare fuori così “il caos che regna all’esterno”. È il destino della destra italiana che spento il fuoco pirotecnico del berlusconismo consegna le sue ceneri a Salvini, rassegnandosi dopo il titanismo del Cavaliere all’imitazione da Asterix padano del lepenismo.
Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a questo punto la sconfitta del “vero conservatore”, come lo idealizzava lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente, di conservare le istituzioni, soprattutto “di non confondere gli uomini con gli angeli o con i diavoli”.

Oggi la neodestra italiana sembra invece cercare disperatamente un diavolo qualunque da scritturare, per farlo sedere a capotavola spaventando gli elettori nell’evocazione dell’inferno permanente, perché nel suo fondamentalismo non c’è spazio nemmeno per un angolo di purgatorio, figuriamoci il buon vecchio paradiso terrestre. Il problema, naturalmente, non riguarda soltanto la destra ma l’intero sistema, cioè la cultura di governo. Perché senza un vero conservatore non può esserci un vero riformista. E infatti…

*larepubblica

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