Tassa acchiappa ricchi: tanto rumore e pochi guadagni

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Per Stefano Lepri, la misura in merito alla tassa-standard da 100 mila euro l’anno proposta dall’Italia rischia di avere effetti limitati con “tanto rumore e pochi guadagni”. Il ministero dell’Economia, invece, si affretta a chiarire che “non si tratta di un condono per i miliardari bensì un provvedimento che aumenterà il gettito” nel nostro Paese che  punta così a diventare un “paradiso” per stranieri ricchi. L’obiettivo è attirare i Paperoni in fuga dalla Brexit.

Tanto rumore ma pochi guadagni

Ne valeva la pena? Questo abbuono forfettario di tasse che vuole attirare gli straricchi a vivere in Italia, anche se funzionasse al meglio, porterebbe nelle casse dello Stato una cifra irrilevante per un Paese di sessanta milioni di abitanti. Se non funzionasse, ne rimarrebbe soltanto l’impressione sgradevole che a torto o a ragione sta suscitando in queste ore.

Misure di questo genere hanno senso in Paesi piccoli, sui quali i trasferimenti di residenza di alcune persone ad alto patrimonio può incidere in modo significativo. Il Principato di Monaco, ad esempio, ci campa. Anche Malta ha norme generose. Oppure possono essere marginalmente utili a Paesi non piccoli che offrano già una piazza finanziaria e bancaria.

Inserita nella legge di bilancio 2017, tra tante novità assai più importanti, questa norma era giustamente sfuggita all’attenzione dei più. Nelle stime più ottimistiche potrebbe fruttare al massimo 100 milioni di euro all’anno, lo 0,02% del gettito fiscale complessivo.

E se facesse fiasco, nessuno ci perderebbe nulla.

Si copia quanto già da tempo esisteva in Gran Bretagna (i «residenti non domiciliati»); proponendosi ora di sfruttare il possibile esodo da Londra, dopo la Brexit, di banchieri e possidenti vari. Non siamo l’unico Paese del continente europeo che ci sta pensando. Né è una novità tentare di attirare i ricchi in un Paese dove ci sono sole e mare, Spagna e Portogallo hanno già provato.

La speranza è forse che i ricchi facciano moda, inducano altri a seguirli, animino così i consumi e il mercato immobiliare. Vista nell’insieme dell’Europa, però, questa concorrenza a strapparseli non giova: qualche Paese ha successo, qualche altro no, in totale la tassazione su redditi e patrimoni alti diminuisce.

Forse poteva risparmiare di mettersi in gara anche l’Italia, dove l’impressione che il sistema tributario sia iniquo è diffusa (pur se è bene ricordare quanto scrisse una volta Luigi Einaudi, che quelli che più strillano contro le tasse di frequente sono quelli che meno le pagano). Si rischia di creare un bersaglio ideale per la ricorrente demagogia dell’«uomo qualunque» torchiato dal fisco.

Quanto pesa, poi, un incentivo così? Da una parte, vivere in Italia esercita già una attrattiva importante. Nelle ville in Toscana o in Sardegna, ai nababbi dell’Occidente si aggiungono ora anche i russi. Dall’altra, per indurre un banchiere a scegliere Milano lasciando Londra contano assai più altri fattori che al momento mancano, come banche fiorenti e una burocrazia che funzioni.

Voci governative ribattono che si sono introdotte anche agevolazioni fiscali per attrarre i «cervelli». Vediamo se funzioneranno; per chi fa ricerca come per tutti i soldi contano, ma conta assai più dove la si fa, con quali risorse, con quale efficienza, con quali prospettive. Nell’un caso e nell’altro, lo strumento tributario rischia di apparire come un «vorrei ma non posso».

Ci si illude spesso (i politici si illudono) di trovare scorciatoie rispetto al faticoso lavoro di riformare ciò che non funziona. Le agevolazioni fiscali sono strumento valido in una società fluida, mobile, aperta al cambiamento, concorrenziale. Altrimenti servono solo a fare annunci.

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