Vittorio Matteucci: parole per un teatro che dal virus deve rinascere

Vittorio Matteucci: “Noi siamo l’approdo di coloro che vogliono confrontarsi con la bellezza. Perché non...

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Vittorio Matteucci: “Noi siamo l’approdo di coloro che vogliono confrontarsi con la bellezza. Perché non fare di ciò l’asso di cuori di un popolo intero?”

Vittorio Matteucci: parole per un teatro che dal virus deve rinascere

Vittorio Matteucci, lavoratore dello spettacolo. Meglio conosciuto come cantattore, è stato protagonista delle opere popolari più amate d’Italia: Notre Dame De Paris, Tosca Amore Disperato, I Promessi Sposi, solo per citarne alcuni. E le firme, rispettivamente, sono quelle di Riccardo Cocciante, Lucio Dalla e Michele Guardì.

Vittorio Matteucci ha incontrato la nostra redazione per una chiacchierata sul mondo dei lavoratori dello spettacolo prima e durante la pandemia. E per immaginarne il futuro.

“I lavoratori dello spettacolo sono quelli che lavorano in televisione, al cinema, i tecnici, i macchinisti, i costumisti, gli scenografi: tutte le personalità al servizio dello spettacolo. Ci sono i cantanti, i ballerini. E sono tutti fermi”.

L’ambiente, tuttavia, in Italia ha sempre dovuto confrontarsi con grandi problematiche. “Non di solo pane vive l’uomo, e direi che questo è un punto essenziale. L’attenzione che manca a questo mondo è di carattere strutturale. Il mondo del teatro funziona, ma sempre a singhiozzo perché non c’è una vera e propria visione sul teatro. Se viene promosso, è una cosa che attrae le persone”.

Questo consiste nell’individuazione di strutture che possano ospitare gli spettacoli, visto che i teatri in Italia non mancano. La proposta: “Direi di costruire un bel circuito, no? Per le produzioni più grosse, per quelle medie, per le più piccole. Così che ognuno trovi il proprio spazio. A livello regionale, le opere dialettali funzionano molto, la gente si interessa a queste compagnie. La spinta e la passione ci sono, ma a volte non sono sostenute come si deve”.

Trovare una soluzione è difficile, ma provare a farlo da soli diventa impossibile. A partire dall’idea di visione e da quella di circuito, Vittorio Matteucci sottolinea: “Ci sono pochi produttori. Non siamo in Germania, né nel Regno Unito o in America, dove lo spettacolo è anche considerato un business. Ma in Italia siamo fortissimi, perché siamo professionisti per passione. Perché abbiamo quest’antica passione che viene dalla nostra storia che ci differenzia un po’ da tutti gli altri”. Ma, per arrivare al pubblico, “la comunicazione deve essere fatta a tappeto. Deve arrivare ovunque, e ovunque bisogna essere spinti alla curiosità verso lo spettacolo. Ci sono tanti coraggiosi che cercano di mettere in piedi produzioni di qualità. Ma la qualità si ottiene anche quando si hanno i mezzi”.

Nel 2009 fu rimessa in scena l’opera moderna scritta da Lucio Dalla: “La Tosca del 2009 fu uno spettacolo pazzesco perché aveva di nuovo l’orchestra dal vivo. Ovunque andassimo avevamo una diversa orchestra: la Sinfonietta, la Puccini, l’orchestra di Torre del Lago”. Ma ecco la contraddizione: “Abbiamo i migliori musicisti del mondo e non abbiamo le orchestre dal vivo. Perché i costi diventano intollerabili. Si può fare, ci vuole una volontà pazzesca. Ma si può fare”. Tutto ciò, attraverso l’idea di circuito che nella visione di Vittorio Matteucci è sempre stato presente. Tuttavia, sarebbe indispensabile l’intervento di specialisti per individuare i costi che maggiormente incidono sull’impossibilità di un’impresa simile in Italia.

“Siamo stati detentori dell’arte canora per anni e anni. Sappiamo come fare questo spettacolo perché abbiamo la tradizione dell’opera lirica. E non vedo perché proprio noi dobbiamo rinunciare alla parte più emozionante, che è lo spettacolo dal vivo. Ci vorrebbero teatri attrezzati che hanno la possibilità di portare in giro i musicisti in modo che la spesa sia la minore possibile. Magari avere dei punti di riferimento lungo lo stivale”.

Insomma, la situazione sembrava critica già prima della pandemia. Ma, ad oggi, Matteucci si rifiuta di pensare che il settore sia arrivato a un capolinea.

“Insieme ai miei colleghi ho avuto la fortuna di incontrare qualche folle. Il più folle di tutti è stato David Zard”. Agente e produttore discografico di alcune tra le migliori voci del panorama italiano, ma sicuramente il più grande produttore di opere moderne in Italia. “Era un appassionato” Matteucci commenta. “Amava fare le cose in grande. Amava i grandi spettacoli e si confrontava con le più grandi produzioni mondiali”.

L’Italia ha potuto vantare la personalità e il marchio di fabbrica di David Zard, ma non solo: “Poi c’è stato Michele Guardì con I Promessi Sposi: una produzione di qualità, professionalità. Il massimo di possibilità in termini di energie e mezzi. E anche con La Divina Commedia c’era la grandissima professionalità Renato Serio, dei professori d’orchestra: il massimo da tutti i punti di vista”.

Ma questo è stato anni fa. “Io ho avuto questa fortuna. Ora non so se ci sono adesso persone così determinate e un po’ folli che vogliono mettersi in gioco”. Ma qualcosa di certo, secondo Matteucci, c’è: “Sicuramente avrebbero i più bravi fra cantanti, attori, ballerini, tecnici, macchinisti e costumisti del mondo”.

Se la macchina dello spettacolo, prima, funzionava in questo modo, durante la pandemia non ha potuto fare altro che fermarsi. “Ora non c’è più nulla, non si può più fare nulla. Il teatro è costruito da due dimensioni diverse e, se ne manca una, il teatro non esiste. Se non c’è il pubblico, il teatro non c’è. Perché il teatro è il dialogo tra pubblico e attori”.

Al momento della chiusura, Vittorio Matteucci era impegnato nel tour di Notre Dame De Paris, l’opera di Cocciante in scena in Italia da circa 20 anni. “Avevamo ancora una sessantina di date. Ho fatto l’ultimo spettacolo a Livorno il 29 febbraio”. Inizialmente, le date sono state prontamente riprogrammate. “Pensavamo fosse una questione di poco tempo e le date furono spostate di pochi mesi. Ma subito dopo hanno nuovamente riprogrammato tutto”.

Nonostante tutto, qualcos’altro sembra bollire in pentola, seppur mestamente: “Poi c’è Dracula, un’idea sulla rimessa in scena dello spettacolo della PFM. Ma è un’idea tutta spinta da grandi passioni e si dovrà vedere cosa succederà. È in embrione. Per rimettere in scena un’opera come questa ci vogliono mezzi, idee e un sacco di altre cose”.

Chi lavora in questo settore ha ben presenti le difficoltà dello stare in scena. Inattese, invece, sono quelle del non esserci. “Il problema per me è che non riesco neanche a insegnare ai ragazzi. Posso sopportare la lontananza dalle scene. Per me non c’è differenza tra lo stare sul palcoscenico al cospetto di trentamila persone oppure fare un incontro con una ventina di ragazzi. Mi danno gioia entrambe le cose. Qui lo dico e qui lo dico. Lo sottoscrivo, anzi”.

La dimensione umana della pandemia sembra investire soprattutto il settore che coniuga lavoro e passione.  “Vivo la situazione con grande fatica perché tutti gli stimoli sono venuti meno. È proprio vero che il lavoro nobilita l’uomo”.

Ma quella del teatro non è l’unica realtà a dover far fronte a difficoltà immense: “Mi ricordo che quando successe tutto era appena uscito Ligabue con Elio Germano e si è fermato tutto lì, non lo abbiamo potuto vedere. Io sono spettatore e vado, andavo, al cinema almeno una volta a settimana. È un momento bellissimo: ti ricrei, stai al buio, spegni il telefono per due ore: è una cosa fantastica”.

Infatti, Matteucci aggiunge: “Io sono innanzitutto pubblico. A me questo mestiere piace e ha incominciato a piacere perché l’ho trovato bellissimo quando l’ho visto. Quando ci sono delle cose belle, faccio i chilometri per andarle a vedere”.

Quindi, in tutto ciò, chi è che ci sta perdendo? “Le persone. Perché le persone hanno bisogno di queste cose. Ne hanno un bisogno estremo, magari non lo sanno, ma ne hanno bisogno. Io conosco la forza del mio mondo. So cosa può smuovere perché ho vissuto delle grandi produzioni, delle situazioni in cui ho visto gente piangere felicemente, per le emozioni. Quindi ci perdono tutti: noi che ne facciamo parte, è ovvio. Ma è un binario a due direzioni. Come io godo e sto bene sulle scene, dall’altra parte c’è chi gode dello spettacolo. E, senza di lui, io non esisto. Quindi, ci perdiamo tutti”.

Parlando della pandemia, Matteucci commenta: “Una cosa del genere credo che non si dimenticherà. Proprio perché è successo, è difficile che le cose possano tornare com’erano prima. Mi riferisco all’assoluta dimenticanza di certe figure, come quelle dei ricercatori”. E il tono della conversazione prende una piega di inaspettata positività e speranza.

“Anche il dolore più grande, anche la catastrofe più grossa, si sa, è un’opportunità. Quindi, in questo disastro, in questa tristezza, dobbiamo cogliere la possibilità di creare qualcosa di definitivo per il futuro. Per le nuove generazioni, per i ragazzi. Bisogna investire sul capitale umano. Se non funziona così ora, funzionerà. Deve funzionare. Quelli che andranno avanti e diventeranno eccellenti saranno quelli che avranno capito questa cosa. Perché è questo quello di cui viviamo”.

Restare in Italia non sembra l’unica opzione: “A tutti piacerebbe restare in Italia. Ma potremmo fare un passo avanti e affidarci all’Europa, che talvolta offre diverse opportunità. È certo che in questo momento in Italia non ce ne sono. Ma quello che dico ai ragazzi è di crearle. Se sei uno tignoso, uno che ce la mette davvero tutta, magari hai la possibilità di farcela. I ragazzi mi dicono che il teatro non offre possibilità: quando vedo alcuni ragazzi bravi consiglio loro di fare una compagnia e di iniziare a competere, perché no, ad alto livello”.

In conclusione, Matteucci resta fieramente tra chi continua a considerare l’Italia come il Paese che, anche con le sue difficoltà, non può fare a meno affondare nell’arte le proprie radici: “Sarà che sono ottimista, ma penso che proprio questa situazione ci mostri una strada molto precisa. Che è quella della valorizzazione del nostro patrimonio, che è fatto innanzitutto di cultura. Sarebbe grave se le cose tornassero come prima. Devono migliorare sensibilmente, va cambiata rotta”. Un teatro che dalla pandemia, insomma, rinasce.

E aggiunge: “Noi siamo l’approdo per tutti coloro che vogliano confrontarsi con la bellezza, con l’arte. E perché non fare di questo l’asso di cuori di un popolo intero? Noi dobbiamo fondare la rinascita su questo: sulla cultura. Letteraria, artistica, dell’arte figurativa, del teatro, del balletto. Non vedi che le nostre etoiles sono i numeri uno e continuano ad esserlo nonostante tutte le difficoltà? Noi siamo così. Perché noi siamo questo e siamo sempre stati questo. Dobbiamo esserlo sempre di più e fare in modo di vantarcene un po’. Abbiamo questa antica abitudine ad essere esterofili. Tutto ciò che viene da lontano sembra avere più valore di quello che abbiamo vicino. Ma non funziona così. Dovremmo chiedere agli altri: volete fare l’opera? Noi ne sappiamo molto più di voi. Vediamo un po’ come si fa l’opera!” scherza. “Noi siamo i numeri uno in assoluto in un milione di campi che hanno a che fare con l’arte, quindi: coraggio, forza”.

Nonostante l’ottimismo di base, Matteucci ammette di percepire tra i colleghi tanta tristezza e tanto sconforto. “Però ho fiducia nel fatto che tra qualche mese si comincerà a vedere la luce. E dovremo fare ancora tanti sacrifici, ma alla fine ne usciremo. E se la memoria non sarà corta, probabilmente ne usciremo meglio”.

Lorenza Sabatino

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