“IL CASO SPOTLIGHT” (critica e trailer)

2001: dopo che il “Boston Globe” è stato acquistato dal “New York Times”, il nuovo Direttore...

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2001: dopo che il “Boston Globe” è stato acquistato dal “New York Times”, il nuovo Direttore Marty Baron, newyorkese e di origini ebraiche, quindi poco permeabile alle influenze della lì influente Chiesa Cattolica, mobilita la squadra investigativa del giornale, la Spotlight, a far luce su alcune denunce finite nel nulla di vittime di abusi sessuali da parte di appartenenti al clero. Qui abbiamo uno scandalo “sopito e troncato”, direbbe A. Manzoni, di cui, in un qualche modo, come una specie di rumore di fondo, “tutti” al giornale sapevano. Tutte le denunce erano state presentate addirittura negli anni 80 e 90, e perfino pubblicate: ma in trafiletti senza nessuna importanza, senza che vi fosse stato alcun approfondimento; tutto come smorzato e lontano. Già un vecchio e riuscito film dell’82 del bravo e impegnato Sidney Lumet, ambientato nella stessa ovattata (era chiara la metafora) e nevosa Boston, “Il Verdetto”, col mitico Paul Newman, aveva messo in evidenza come fosse silenziosamente potente e pervasiva la Chiesa Cattolica, e attaccata ai suoi interessi mondani, di quella città che più irlandese non si potrebbe. Questa veneranda istituzione è considerata come il riferimento essenziale identitario, la cornice fissa e inamovibile del modo di essere irlandesi/bostoniani: non si poteva lontanamente mettere in discussione o criticarla. Era l’aria che si respira. La venuta di un “occhio esterno” al giornale ha cambiato profondamente questo modo di vedere, a cui erano acriticamente succubi, anche essendo reporter bravi e in buona fede. Il film (USA, 15), fresco Oscar 16 come Miglior Film, la categoria più ambita e prestigiosa, ci rimanda questa strana atmosfera che circonda la Chiesa, alle prese con uno degli scandali più gravi della sua recente storia: che stava segnando negativamente il suo approccio alla modernità; e che tra l’altro l’ha impoverita, avendo dovuto pagare cifre milionarie alle vittime, nella cause civili da queste intentate nei suoi confronti, in quanto essa era responsabile dell’operato dei suoi pastori. Gli autori e produttori hanno avuto coraggio: il regista Thomas McCarthy, anche sceneggiatore insieme a Josh Singer, ne ha dato atto alla casa Participant Media che ha voluto e concepito il film. Ma il dramma che emerge è un altro. La Chiesa sapeva e ha coperto queste gravi responsabilità individuali, col peso della sua influenza: connivenza e complicità. Il Cardinale Arcivescovo Law era perfettamente a conoscenza del fatto che, sulla base di studi e inchieste sul campo, almeno il 6% del suo clero parrocchiale praticava sistematicamente tali abusi. Queste consapevolezze documentali, che spaventano e sconvolgono gli stessi pur scafati giornalisti, che sono tutti più o meno cattolici, si evidenziano strato a strato: la verità si ricompone un pezzo alla volta. E’ un thriller. Ha la consequenzialità appassionante e disvelatrice tipica del genere. Solo che non ci sono assassini da individuare, ma fatti da inquadrare. E ogni volta che si arriva ad uno step significativo, ecco che per lo più in modi morbidi, amicali, alliscianti e “umani”, ma anche talvolta con minacce esplicite, l’istituzione secolare, con le sue pedine e agganci, i suoi uomini, le sue promesse, interviene per cercare di frenare, azzerare: sempre abboccandosi in ambienti tranquilli, confortevoli; usando i suoi sornioni e simpatici lobbysti. Il film privilegia il chiuso della redazione: è il nucleo della narrazione. Anzi, possiamo dire che tale atmosfera diventa come inibente ad un sviluppo en pein air della narrazione: è come se prevalesse una sorta di claustrofobia. Ma, a mio avviso, è questa la valenza voluta del film: il gioco metaforico dell’accerchiamento rispetto ad una Città e ad una Comunità che vuole ignorare le scomode e dolorose verità, o non vuole sporcarsi le mani, con quell’andamento fittizio e ipocrita di apparente tranquillità, che copre orrendi crimini, da non destabilizzare, e di cui la Chiesa era garante e tutrice dall’alto del suo bimillenario magistero. E in effetti tutto si raccorda visivamente e fa capo a quel centro: anche gli esterni sono in funzione di quel cuore collettivo e nevralgico, non solo fisico ma umano: infatti la sceneggiatura, che in quanto “Originale” anch’essa era in Nomination, privilegia accortamente il senso del protagonismo collettivo dei personaggi. Ma tutti identificati con chiarezza comportamentale e caratteriale: anche perché, e ciò ha molto aiutato e rafforzato la concretezza della sceneggiatura, erano tutti personaggi reali ben conosciuti, proprio i giornalisti di quel mitico team, che poi per questo ha vinto il Premio Pulitzer. Che poi l’apparente e voluta limitatezza ambientale, sia innervata dalle continue scelte dell’accorto montaggio, curato da Tom McArdle e di illuminazione, curata da Masanobu Takayanagi, che variano la gamma dei nostri punti di vista e delle nostre impressioni, che mutano senza manifesta difficoltà o senso di lentezza, ciò attiene alla qualità del film stesso. Che fa concentrare la nostra attenzione sul dato tematico: sia in funzione della sua gravità sociale e conseguenze per la stessa credibilità della Chiesa, e della solidarietà alle vittime, e sia in funzione del lento progredire della verità non solo nelle menti , ma negli animi di quegli infaticabili professionisti. E qui l’elevata qualità individuale degli attori (Michael Keaton, Rachel Adams, Mark Ruffalo, Lev Schrieber ecc.) s’innesta con grazia e precisione nel gioco collettivo.

FRANCESCO CAPOZZI

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