Mia Martini, la donna che gli uomini uccisero

La storia di Mia Martini dalla stanza della sua ultima casa all’odio degli uomini che...

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La storia di Mia Martini dalla stanza della sua ultima casa all’odio degli uomini che pensano che la sfortuna sia donna. 

E’ una storia vecchia di mille anni quella sulla violenza sulle donne. Molte volte, i giornali ci danno modo di dare un volto ed un nome al gesto malato di chi non ha altra arma se non la propria forza. Mia Martini nel 1999 canta “Gli uomini non cambiano”. Ebbene si, Mimì aveva ragione: lei ne ha visti pochi di uomini cambiare e forse sono gli stessi che l’hanno uccisa. La trovarono lì, nella sua stanza in via Liguria 2 a Cardano del Campo a Varese; era chiusa dentro, infatti i pompieri dovettero sfondare la porta per entrare, e giaceva distesa con le cuffie nelle orecchie. Qualcuno della televisione disse che aveva “L’espressione serena”, eppure Mia non c’era più. La notizia scivolò vorticosamente tra palinsesti di giornali e tra gli amici più cari: Renato Zero chiamò Loredana Bertè di cui tutti ricordano ancora oggi le grida nel vedere la sorella senza vita. In effetti, erano un trio Mia Renato e Loredana: nel 1968 cercarono insieme di mettere su un gruppo musicale, quando Mimì aveva già 22 anni ed era già un passo avanti nella sua carriera poiché aveva iniziato all’inizio dei Sessanta. Bella la sua vita di quegli anni: i concerti in riviera, alcuni anche con Pupi Avati alla batteria ed i pensieri che volano. Sono piccoli successi ma non saranno mai abbastanza: erano gli anni dei primi juke box e della musica “ye-ye “: facevano successo i dischi di Rita Pavone e Celentano ma la Martini non decolla. Sembra inutile continuare con la storia delle “ragazze yeye”, tanto che decide d’iscriversi ad un sindacato dei musicisti ma non riesce a mettere da parte la passione per la musica: Roma le da il coraggio di continuare e le occasioni per serate jazz che sembrano avere un grande successo. Poi quel maledetto 1969: viene arrestata per possesso di hashish e condannata a 4 mesi di reclusione. Questo è il primo gancio di una lunga catena di dolori che stringeranno sempre di più sul cuore di Mia. La sua vita inizia a cambiare da qui; del resto era sempre così: da un eccesso all’altro, dal troppo amare al male di vivere, da mille applausi ad un palco vuoto, dalla vita alla morte. E’ la Madame Bovary di Flaubert: si muove sul filo dei suoi sogni, tra piante pungenti di parole, cammina nel vento dell’eterna pregiudizievole esuberanza, quella di chi non l’ha amata abbastanza. La svolta della sua vita arriva negli anni Settanta: “Dopo l’arresto Mimì torna a Roma, sbarca a Civitavecchia in una giornata di pioggia. Entra in un bar, prende un cappuccino e inizia a berlo sotto il diluvio. E sorridendo decide di non rinunciare al suo sogno. Sceglie il jazz. Ritorna a essere “Domenica” (il suo nome completo è Domenica Rita Adriana Berté) e con il trio di Totò Torquati conquista il pubblico del Titan di via della Meloria, del Piper di via Tagliamento. L’occasione della vita le capita nel febbraio del 1971. Deve correre al Piper di Viareggio, c’è da improvvisare una serata. Il pubblico resta a ballare fino alle quattro di mattina. Alberigo Crocetta, proprietario del Piper e mentore di Patty Pravo, si offre di produrla. Mimì rifiuta una prima volta. Poi cede. “Dobbiamo cambiare nome però. Ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini”, dice Crocetta. “Va bene: però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow”. La storia ha inizio”. (larepubblica.it)
Inizia a collaborare con quelli del giro della “scuola genovese”, come Lauzi, oppure gli eterni romantici: Baglioni e Califano. Con Califano scatta “l’amore” sin da subito: dopo aver parlato tanto ed una cena, Califano il giorno dopo torna da Mimì con un vestito perfetto per lei; si chiama Minuetto. Qui il respiro si ferma, ripensa alla canzone: un capolavoro dell’artigianato musicale, ma anche un triste manifesto di ciò che verrà: “E la vita sta passando su noi, di orizzonti non ne vedo mai\Ne approfitta il tempo e ruba come hai fatto tu\il resto di una gioventù che ormai non ho più\E continuo sulla stessa via, sempre ubriaca di malinconia\ora ammetto che la colpa forse è solo mia\avrei dovuto perderti, invece ti ho cercato”. Quella catena di dolore che era già iniziata anni fa adesso sembra continuare a stringere, questa volta sarà dura davvero resistere: Nell’Italia dove maistream fa rima con piccolo-borghese le parole, il volto, l’immagine della Martini sono come un metallo pregiato, come un diamante: l’autenticità professata come valore assoluto. La sensibilità come guida. Talmente forte che le piccole, idiote e meschine armi che lo show business inventa per fermare la Martini diventano tanti colpi. Le dicerie sul suo “portar jella” iniziano allora. Non si fermeranno mai. Mimì prima ci sorride. Poi ci sta male. Crisi cicliche. Sempre più pesanti” (larepubblica.it) .Fasi cicliche, che la portano a decidere di ritirarsi dalle scene. Sarà dura per tutti,ci proveranno in tanti a convincerla: De Andrè, Pino Daniele, Loredana Bertè con cui in quegli anni collaborò per registrare Non sono una signora e nemmeno Ivano Fossati che per lei scrive nel 1982 “E non finisce mica il cielo”. Aveva ragione Fossati, il cielo non sarebbe finito, come non finì sulla sua notte più nera: era il 1985 e mia decide di sparire per 4 anni, di ritirarsi dalle scene e concede solo pochissimi interventi musicali , piccoli concerti di provincia. Tutto tace negli anni dell’assenza, fino a quella sera del 1988: la sua macchina scivola su una lastra di vetro ma ne esce illesa. E’ un brivido di vita quella notte, è la scossa dopo essere rimasta assopita sotto l’effetto delle anestetizzanti violenze verbali: si riprende tutto ciò che aveva perso durante il silenzio e torna sul palco:, quello di Sanremo il 21 febbraio 1989: “Per capire è necessario il contesto. È necessario inscrivere quel piccolo miracolo in un prima e in un dopo. Il prima è rappresentato dai “figli di papà”: Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che presentano il festival in puro stile anni Ottanta. Dinoccolati e cotonati. Dopo c’è Jovanotti, cappello da cowboy, aria casinista e “No Vasco, no Vasco, io non ci casco”. In mezzo, un angelo. Mia Martini entra sul palco sorridendo, attacca Almeno tu nell’universo. Al ritornello alza i pugni al cielo, accompagna presenti e telespettatori su una melodia magnifica, su parole struggenti. Ed è una bomba, pelle d’oca collettiva. Rivince il premio della critica. Ritorna dal suo pubblico. Ricomincia a vivere e respirare. Verranno La nevicata del ’56, Gli uomini non cambiano. Verrà il successo, di nuovo”(larepubblica.it). Mia era imbattibile e lo sapeva anche il maestro Roberto Murolo: era nella sua casa napoletana insieme ala Martini e provavano una canzone di Enzo Gragnaniello, “Cu’mme”.  E’ ancora oggi la canzone tra le più belle della musica italiana: si fondono insieme rabbia, stupore, amore e passione; il lirismo napoletano incontra la malinconia e la profondità della voce di Mia. E’ il 1993 quando dopo un lungo silenzio decide di riabbracciare Loredana. Suggella l’incontro con la sorella ritornando a Sanremo l’anno successivo. Poi seguirà nel 1994 “La musica che mi gira intorno” prodotta dall’amico Shel Shapiro. Quello che succede nel 1995 lo sappiamo, siamo ritornati alla camera della sua casa a Varese: Mimì è ancora li. Invece no, forse mi sbaglio: Mia è qui dentro ogni donna. Mia è la parte che resta alla fine del giorno indifesa e che poggia la testa sul cuscino bagnato. Mia sono le lacrime sul telegiornale della sera, quello delle carezze che diventano schiaffi. Mia l’hanno uccisa gli uomini, quelli che non l’hanno amata ma giudicata, dimenticata, evitata o messa in panchina. Mia non è morta quel giorno , ma molto prima, quando una carezza non bastava e due sembravano troppe. Mia muore ogni giorno che un uomo dimentica, quando pensa che la sfortuna possa essere donna. 

 

a cura di Annalibera Di Martino

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