PD, il giorno degli addii: la minoranza del Pd rompe con Renzi e annuncia la scissione

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La minoranza del Pd rompe con Renzi e annuncia la scissione. Durante l’assemblea del partito l’ex premier ribadisce di non accettare ricatti e a fine giornata l’ala guidata da Emiliano, Rossi e Speranza annuncia l’intenzione di dar vita a una formazione alternativa. Renzi canta vittoria per aver smascherato quello che definisce “un bluff” e pensa già alle primarie di aprile. Ma per Marcello Sorgi quello a cui abbiamo assistito è un “suicidio perfetto” da parte del Pd che avrà “conseguenze disastrose sul governo, sul Parlamento e sul Paese”.

Pd, dopo i giri di valzer l’addio: “Renzi ha voluto la rottura”

Nel pomeriggio spiraglio dal governatore pugliese, in serata si richiude. Bersani: il segretario ha alzato un muro, congresso cotto e mangiato

ROMA – Il «patto di via Barberini» per lasciare il cerino in mano a Renzi viene siglato nella delegazione romana della regione Puglia, al primo piano, nello studio del governatore. Seduti sui divani in pelle chiara, Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza fanno il punto, finita l’assemblea, quattro giorni dopo il loro primo summit carbonaro. E vergano sul tavolino di vetro al centro del salottino un comunicato duro per far vedere di essere compatti. Tre righe contro Renzi, reo di negare risposte «al generoso tentativo unitario». E che dunque si intesta da solo la «gravissima responsabilità della scissione».

 

Il sospetto di Renzi è che ci sia la mano di Massimo D’Alema nell’inversione compiuta da Emiliano, che nel pomeriggio aveva dato l’impressione di non voler rompere. Sì perché il film della giornata è stato un altro. «La notizia oggi è che il patto regge, perché Guglielmo Epifani ha parlato a nome di tutti e tre i candidati e non parla nessun altro», sorride all’ora di pranzo Chiara Geloni, la pasionaria della «Ditta» tendenza-Bersani. Ci pensa quell’istrione di Michele Emiliano alle cinque della sera a smentire la granitica certezza, quando invece irrompe da dietro il podio per pronunciare un intervento all’insegna del fair play con toni suadenti da crooner epoca jazz, interpretato da tutti come un «io resto nel Pd». Tanto da far imbufalire i «compagni» di avventura, rimasti di sale di fronte a quello che interpretano come un voltafaccia. Che Renzi non si fidi lo dimostra il duetto che mette in scena con il suo potenziale sfidante. «Chi ha detto che Renzi non si deve ricandidare alla segreteria, chi ha concepito quest’idea?», chiede sdegnato Emiliano. Dal banco della presidenza, Renzi ride e lo addita alla platea. «L’ha detto lui». E i fan partono col controcanto.«L’hai detto tu!».

Parte già la competition  

Il timore di un candidato forte capace di togliere consensi al loro leader spaventa i renziani, partono i colpi dal palco contro il governatore e in platea scorrono i veleni: «Lui accarezza l’idea di restare da solo unico candidato se loro se ne vanno a fare la scissione da soli». «Il suo discorso non era previsto, non doveva parlare», sibila in sala uno dei registi del cantiere scissionista, Nico Stumpo, temendo l’immagine sui media di una sinistra in ordine sparso. A risollevare gli umori dei compagni e a far ripiombare il mediatore Dario Franceschini nella depressione le parole immediatamente successive di Emiliano: lesto nel riportare l’asticella sul comparto scissione, quando rintuzza i colpi fuori con le tivù sulle primarie che devono svolgersi in settembre. Ma le crepe nel muro dei frondisti si aprono eccome per tutto il giorno. «Se ci sono le condizioni resto candidato», dice il governatore toscano Enrico Rossi. Il più netto Bersani, «il segretario ha alzato un muro, in tre mesi si fa solo una conta, un congresso cotto e mangiato», taglia corto.

Cercasi leader e marchio  

E ora gli «scissionisti» si ritrovano di fronte ad una mole di problemi da risolvere di corsa. Il nome della futura formazione, il marchio e il leader. «Il nome dobbiamo cercarlo, ma non sarà una cosa lunga», dice la Geloni. «Non c’è ancora, è la dimostrazione che non avevamo deciso da un anno come dicono, perché quello di oggi poteva essere uno scenario diverso e saremmo rimasti nel Pd», assicura il senatore Federico Fornaro. E se Emiliano viene considerato il leader in pectore, sarà dura da digerire per Speranza e Rossi. Problemi che «i compagni» sanno bene. Pure il resto, nome e marchio, oltre al leader, «è tutto da inventare». Nessun agenzia di comunicazione è stata contattata, nessun grafico per disegnare un logo, anche il nome «boh», rispondono. «ConSenso», di D’Alema resterà il nome di un movimento, «quella di Massimo è una cosa sua», prendono le distanze i bersaniani. Svelando l’altro problema, la freddezza nel rapporto personale tra Bersani e D’Alema. Rimane «Rivoluzione socialista», il titolo del summit del Vittoria.

Organigramma dei gruppi  

Qualche passo avanti potrebbe esserci sul fronte dei gruppi parlamentari: i renziani stimano che al Senato su 109 del Pd ne escano una quindicina al massimo, «il gruppo riusciamo a farlo», si rincuora Fornaro, alludendo alla regola che richiede un minimo di dieci senatori a Palazzo Madama. Alla Camera potrebbero essere una quarantina i deputati uscenti. Roberto Speranza rientrerebbe nella sua vecchia carica di capogruppo quando guidava una compagine dieci volte più vasta. E al Senato se la giocano tra il braccio destro di Bersani Maurizio Migliavacca e lo stesso Fornaro, più giovane ed esperto di sistemi elettorali. L’ex segretario mostra di sentirsi già fuori dal partito, regalando ai cronisti un aneddoto gustoso. «Un romanziere mi ha mandato il suo libro al Nazareno, ma gli è tornato indietro con la dicitura “destinatario sconosciuto”…».

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