Il centrodestra vince con i voti M5S

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La lettura dell’andamento del voto città per città spiega che in molti casi la vittoria del centrodestra è arrivata grazie ai voti del M5S ma ora l’alleanza vincente è fragile.

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Ma il centrodestra resta diviso tra moderati e sovranisti

ROMA – Il ritorno in gara della destra sfida la forza di gravità e rimescola le carte in vista delle Politiche. Ha vinto uno schieramento privo di leader; senza un programma condiviso; in totale assenza di prospettiva comune. Berlusconi con la Merkel, Salvini e Meloni coi «sovranisti». Il primo continua a preferire la moneta unica, gli altri vogliono perlomeno un referendum. Di Trump a Matteo piace la retorica forte, a Silvio la «first lady». Anche ieri, dopo il trionfo, poco hanno fatto per negare le differenze. Al massimo si sono sforzati di abbassare i decibel. Berlusconi ha fatto sapere ai suoi che «per un puro fatto di eleganza» avrebbero fatto bene a evitare frecciate contro Salvini, il quale a sua volta si è trattenuto. Idem Toti, il quale ne avrebbe avuti di sassolini da levarsi. Ma questa fragile tregua dettata dalle circostanze non ha impedito a Meloni di polemizzare col Cav, se è giusto e fino a che punto definirsi «liberali e moderati» come insiste Berlusconi, guastando un po’ la festa nel giorno più fortunato.

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La rabbia e la paura  

Strano a dirsi, proprio questa variopinta carovana di personaggi, programmi e ambizioni si è trasformata di colpo in una macchina da guerra. Sono crollati i bastioni di roccaforti «rosse» come Genova e La Spezia. La discordia di propositi si è rivelata un punto di forza. La babele di lingue ha confuso soprattutto i nemici. Nessuno può dire «l’avevo previsto», ed è dimostrazione che nel profondo sono entrate in gioco nuove emozioni. Istinti primordiali stravolgono la mappa dei sentimenti e rimodellano gli umori. Oltre alla rabbia e alla paura, avanza un’ansia di sicurezza che rilancia le ambizioni della destra tradizionale e antica anche rispetto a quelle interpretate dal movimento grillino. Spiega Alessandra Ghisleri di Euromedia, la sondaggista più esperta di quel mondo: «Alla radice c’è soprattutto l’immigrazione. Che appare fuori controllo e si somma a quasi un decennio di crisi economica. Molta gente ha paura di essere penalizzata dai nuovi arrivi, spalmati sul territorio. È spaventata dalla massa degli sbarchi e da come verranno gestiti. Non è un rifiuto a priori, ma una reazione quasi meccanica agli eccessi dell’accoglienza, alle forzature ideologiche della sinistra».

Il brand e le imitazioni  

A ben vedere, Forza Italia e Lega non hanno mosso un dito, limitandosi al gioco di rimessa. Il sindaco uscente di Sesto San Giovanni, un tempo la «Stalingrado d’Italia», ha spianato la strada agli avversari promettendo di edificare la moschea più grande del Vecchio Continente. Sullo «jus soli» ha fatto tutto il Pd, con una legge che sul piano etico è a prova di bomba, ma nella tempistica si è dimostrata un boomerang: quale urgenza c’era di votarla alla vigilia dei ballottaggi? Stesso discorso sulle banche, con un salvataggio via decreto destinato a spargere veleni per lungo tempo ancora: a parte Renato Brunetta, non è che il centrodestra si sia sgolato contro. Certo non più del M5S. Eppure, nell’immaginario collettivo, Salvini e Berlusconi sono un marchio di fabbrica, il brand originale di una certa protesta contro i “poteri forti”. Tardivamente Grillo ha cercato di recuperare terreno prendendosela con i migranti. L’analisi dei flussi elettorali, elaborata quasi in tempo reale dall’Istituto Cattaneo, non lascia spazio ai dubbi: nei ballottaggi di 11 città prese in esame, i candidati “azzurri” e leghisti hanno risucchiato un terzo (per l’esattezza il 32,1 per cento) degli elettori che nel primo turno avevano scelto i Cinquestelle. Il fenomeno è stato particolarmente vistoso a Genova, ombelico del movimento: risultato che si può leggere in molti modi. Ad esempio, come il segnale che la marea si è invertita, e il popolo berlusconiano ritorna all’ovile dopo l’infatuazione per Grillo. Oppure, più prosaicamente, con il peso del localismo, e la scelta giusta dei candidati. Un manager appezzato come Bucci, un sindacalista della Cisl a La Spezia per restare nelle ex roccaforti rosse. Amministratori che puntano sul pragmatismo perfino quando manovrano la ruspa di Salvini. Alessandro Campi, studioso della destra nazional-popolare, le riconosce un merito: «Perlomeno stavolta si sono dati da fare nella selezione delle candidature, hanno puntato su personaggi credibili. Diversamente dal passato, non si sono rifugiati sotto l’ombrello protettivo di Berlusconi e si sono dati da fare nella costruzioni di solide alleanze locali».

Gioco delle parti  

Sul ribaltamento dei valori, sul nuovo «mood» italico che la sinistra giudica regressivo e condanna senza avere trovato tuttavia l’antidoto, si giocherà la partita vera tra destra e M5S. Entrambi hanno dato prova di poter vincere contro il Pd e di avere elettorati fluidi, sovrapponibili, in certa misura disposti a sommarsi nel segno della protesta. Salvini è il personaggio che più si è spinto nei territori di confine, vendendo armi agli indiani e comprando whisky. Le voci di contatti diretti con Casaleggio, per quanto smentite, hanno fatto il gioco della Lega segnalando una contiguità di accenti e, in qualche caso, di programmi. Berlusconi invece si è dato la mission opposta, di fare argine alla Lega e di presidiare le praterie di centro: quelle che Renzi lascia incustodite da quando la scissione della «Ditta» lo costringe a dire cose “di sinistra”. Sembrano strategie incompatibili, e probabilmente lo sono, così come non conciliabili appaiono i caratteri di quei due. Ma la vittoria fa nascere un sospetto: che Forza Italia e Lega, più i post-fascisti della Meloni, stiano imparando a marciare divisi per colpire uniti. Vecchio motto prussiano, sempre attuale.

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