ORA a Grillo l’Italicum va bene, e vuole votare subito

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Per Andrea Malaguti il leader dei Cinque Stelle è convinto “non solo di vincerle ma anche di essere in grado di governare”.

Dalla protesta alla proposta. Grillo è convinto di poter vincere e governare

#iovogliovotare Beppe Grillo chiede l’immediato ricorso alle urne ed è convinto non solo di poter vincere le elezioni, ma anche di essere in grado di governare. Quanto alle possibilità di vittoria indubbiamente ha ragione. La possibilità esiste. Soprattutto se rimarrà in vigore l’Italicum o comunque un sistema che preveda il ballottaggio al secondo turno e il premio di maggioranza ai singoli partiti e non alle coalizioni.

Difficile che l’approdo sia quello, ma poniamo che lo sia. Dopo anni in cui il Movimento è stato trattato con sufficienza, per non dire con disprezzo, è diventato chiaro anche ai più scettici che questo atteggiamento non è solo miope, è persino stupido.

Roberto Fico, uno dei possibili candidati premier, interprete rigoroso del pensiero di Casaleggio padre, ha sintetizzato più volte la formula del successo con una frase semplice e piuttosto efficace: «Cittadini, lavoratori, disoccupati, studenti, immigrati: i partiti non ascoltano le loro voci». Il Movimento lo fa. E sempre di più le fasce che si sentono meno protette, a cominciare dai giovani, cercano rifugio nel campo grillino, considerando che quel che resta della sinistra di Palazzo sembra vivere sulla luna.

Ma le parole del presidente della vigilanza Rai rischiano di diventare il freddo promemoria di un mondo destinato inesorabilmente a decomporsi (il nostro) se non vengono seguite da un programma dettagliato e comprensibile. La «pars construens» è da sempre il punto interrogativo di un non partito, con un non statuto, che in Europa è alleato con l’estrema destra e in Italia ha cominciato a radicarsi imponendo temi da sinistra classica, dall’energia pulita al consumo del suolo, e che, per fare l’esempio più rapido, sull’ «ascolto degli immigrati» invocato da Fico ha posizioni discordanti per non dire antitetiche. D’accordo superare gli schemi tradizionali di destra e sinistra, ma per arrivare dove? Qual è la vera anima del Movimento?

Se Grillo vuole entrare a Palazzo Chigi ha il dovere di dirlo. E di dirlo in fretta. Perché in attesa che ad esprimersi sia la Rete – entità indistinta che assolverà qualunque portavoce dalla fatica di assumersi la responsabilità di un fallimento eventuale – alcuni temi sono già prepotentemente in scena, a cominciare dal reddito di cittadinanza. Titolo fenomenale, che si porta dietro una suggestione irresistibile: nessuno sarà più povero. Ma è proprio così? E stiamo parlando di reddito di cittadinanza o di sussidio di disoccupazione o, nel mondo dei voucher, di sotto occupazione? E quando il Movimento 5 Stelle dichiara che per introdurlo sono sufficienti 17 miliardi, a quali calcoli si riferisce considerando che il governo Renzi per dare 80 euro a una platea di dieci milioni di persone ha speso dieci miliardi? Ed è possibile avere il reddito di cittadinanza e contemporaneamente i ventilati 30 miliardi di riduzione dell’Irap?

Davvero si immagina di potere accumulare queste cifre soltanto con la lotta all’evasione fiscale, battaglia combattuta e persa da ognuno dei 63 primi ministri succedutisi nel nostro Paese negli ultimi 70 anni? E, andando avanti, qual è la posizione sull’Europa e sull’euro? La stessa di Farage dello Ukip britannico o quella vaga di Di Battista che dice: Europa sì ma non questa, euro sì ma non questo, forse meglio due monete diverse? E il Movimento vuole uscire dalla Nato e tagliare contemporaneamente i fondi alla Difesa? Per fare che cosa? Per allearsi con chi? Le domande sarebbero mille, perché i 5 Stelle, imbattibili sulle regole, e dunque sulla prepolitica, sono incomprensibili quando si tratta di indicare l’orizzonte. Dal 4 ottobre 2009, data di nascita del Movimento, a oggi l’enigma non è stato risolto.

Ma adesso, proprio perché la possibilità di governare il Paese è concreta, l’inafferrabile Rete è tenuta a produrre programmi chiari e ad appoggiarli sulle spalle di una classe dirigente riconoscibile (e magari meno litigiosa di quella attuale), per uscire finalmente da questa sindrome dell’accerchiamento che rischia di produrre nel Movimento solo un dinamismo irritante e l’assoluta incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio. In questa prospettiva l’esperienza appena terminata di Matteo Renzi dovrebbe essere illuminante.

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