La parabola del Milan e del calcio italiano

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Conservo una foto in bianco e nero dei primi giorni di Silvio Berlusconi al Milan: il neopresidente, molto più giovane e calvo di adesso, sorride tra Franco Baresi e Paolo Maldini. Nel passarmela, un collega anziano mi disse: «Guardala bene, ragazzo, perché tra un paio d’anni al posto di Baresi e Maldini ci saranno due carabinieri».

La profezia non si avverò e il progetto del Dottore, come allora si faceva chiamare, ebbe modo di esprimersi in tutto il suo fulgore.

Calciatori strapagati, incursioni negli spogliatoi durante l’intervallo («Donadoni, mi consenta, la vorrei più ficcante sulle fasce»), atterraggi in elicottero sul prato di Milanello con tanto di spogliarello e lancio dell’impermeabile afferrato al volo da un inserviente che forse era il portiere di riserva. Ma anche un modello organizzativo formidabile, intuizioni coraggiose come Arrigo Sacchi e dichiarazioni che diventavano epocali nel momento stesso in cui le pronunciava: «Il complimento più bello che ho ricevuto nella vita? La volta che un tifoso si avvicinò alla mia macchina per urlarmi: Silvio, sei una bella figa!».

Prima di alzare al cielo la prima Coppa dei Campioni contro la Steaua di Ceausescu si rinchiuse nella cappella dello stadio: «Ho pregato Dio perché non faccia vincere i comunisti». E dopo avere alzato la seconda arringò i giornalisti con queste parole: «Vorrei fare l’Italia come il Milan». Era l’annuncio del suo ingresso in politica, eppure nessuno se ne accorse, Anzi, lo prendemmo tutti per matto. Il Milan gli è riuscito molto meglio di Forza Italia e non solo perché è più semplice avere a che fare con Gullit che con Verdini. Nello sport, ancora più che nella televisione, Berlusconi è riuscito a esprimere la sua vera personalità, un impasto irripetibile di talento rivoluzionario e senso comune, disprezzo per le regole e propensione per il grottesco.

Nel calcio italiano esiste un prima e un dopo Silvio. E il dopo è cominciato ben prima dello striminzito comunicato di ieri in cui la Fininvest annuncia la fase finale delle trattative con un gruppo di azionisti cinesi dal volto mascherato. Il declino del Milan ha accompagnato quello del suo presidente e dell’intero movimento calcistico italiano, Juventus esclusa. A parte gli Agnelli-Elkann, le grandi famiglie del nostro capitalismo sono scappate dal pallone. E a sostituirle, almeno fino a quando non sapremo chi si cela dietro l’offerta di Pechino, non sono arrivati miliardari munifici ma investitori dalla lingua lunga e dal fiato corto, il cui emblema è quel Thohir che usa l’Inter come un bancomat.

La ragione è nota: la serie A emoziona solo i tifosi indigeni, ma sempre meno chi la guarda da fuori. Il gioco è troppo lento, gli ultrà hanno troppo potere e gli stadi sono troppo vecchi, brutti e soprattutto deserti. Per chi guarda il calcio in televisione nessun copione è più noioso di certe partite giocate col freno a mano e nessuna scenografia più triste di quelle gradinate lontane dal campo e piene di vuoti. Le squadre inglesi non sono poi tanto migliori delle nostre, infatti in Europa non vincono quasi mai. Però il campionato inglese è uno spettacolo. Alla lunga il progetto di Berlusconi è fallito per eccesso di egoismo: lui e quelli come lui hanno pensato solo al proprio orticello, senza considerare che la povertà delle avversarie e la bruttezza degli stadi avrebbe finito per deprezzare il prodotto complessivo.

Esistono due soluzioni per attirare i grandi finanziatori asiatici. Quella «global»: un campionato europeo in stile Nba tra venti grandi club, mentre tutti gli altri si trastullano con i tornei nazionali, immiseriti ad altrettante serie B. E quella «local»: un campionato italiano a sedici squadre assegnato tra aprile e maggio con i play-off, così da garantire la moltiplicazione delle emozioni e delle sfide di cartello, oltre che delle possibilità di una vittoria a sorpresa. Per motivi di bottega calcistica io preferirei la seconda (tre derby contro la Juve in una finale playoff rappresentano il sogno di ogni granata). Ma l’importante è scegliere, e in fretta. Come in tutti gli altri campi dello scibile italico ed europeo, anche in quelli sempre meno verdi del calcio il problema resta che tutti si lamentano, ma nessuno si muove.

vivicentro.it-opinioni / La parabola del Milan e del calcio italiano MASSIMO GRAMELLINI

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