Il caso-simbolo di Totti metafora della perdita. (Paolo Conti)

La parabola del giocatore ricorda uno dei segreti della felicità. Tutto è a tempo: il...

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La parabola del giocatore ricorda uno dei segreti della felicità. Tutto è a tempo: il successo, la gloria, le passioni, il denaro, la salute. Facile a dirsi. Ben più duro viverlo.

L’incredibile vicenda di Francesco Totti, campione-simbolo di una squadra e di mezza Capitale, appassiona anche il pubblico non calcistico. Perché riguarda qualsiasi uomo o donna quando si trova di fronte all’abisso della perdita di ciò che implica la propria stessa identità. Totti «è» la Roma per la lunga dedizione, l’incondizionato amore per la città e per i compagni di squadra. Eppure tanta massa emotiva, quando si percepisce che un lungo capitolo di vita è finito per sempre, e dunque mai nulla tornerà come prima (atleticamente, con la squadra, con i tifosi) conta poco o nulla. Semplicemente è difficile (impossibile?) rinunciare ad «essere Totti», il Capitano.

Il terrore per l’abisso della perdita riguarda tanti campi. L’amore: intere biblioteche parlano di distacco, della fine della passione, dell’abbandono. Perché è un’impresa non sentirsi più «l’uomo» o «la donna» dell’altra persona, e spogliarsi di un abito affettivo. E così per gli incarichi di responsabilità (nella politica, nell’industria, nella finanza, nella cultura, nel mondo televisivo): non «essere» più ministro, assessore, direttore, divo tv può minare personalità solidissime. Allora c’è sempre la residua speranza (l’avrà certo anche Totti) che un ultimo gesto, un’estrema frase, possa cambiare la rotta di ciò che invece è già archiviato. Ma non avviene quasi mai.

La parabola di Totti ricorda uno dei segreti della felicità, ricordare che tutto è a tempo: il successo, la gloria, le passioni, il denaro, la salute. Facile a dirsi. Ben più duro viverlo.

Questa storia ci porta diritti alla metafora delle metafore, alla morte. Perché quando si chiude un capitolo di vita, anche non volendolo, si pensa sempre a Lei. Ieri Aldo Cazzullo raccontava che Umberto Eco «ha riso fino all’ultimo della morte bevendo whisky, mangiando noccioline e raccontando storielle in piemontese». E si trattava di morire. Allora, ma sì, è possibile smettere anche di «essere» il capitano, o l’amante, o il ministro, o l’autore di best seller. Due dita di whisky, ghiaccio, ironia e distacco.

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